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Il medico e la legge |
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Responsabilità professionale e dovere d'informazione
Si diceva poc'anzi della rilevanza autonoma del dovere d'informazione sussistente in capo al sanitario, quale aspetto ulteriore da analizzare in questa sede. Ebbene, l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in tema di dovere d'informazione, nell'ottica del più ampio problema di tutela del "consumatore-cliente", in quanto parte più debole[1], assume nel nostro caso riflessi di assoluta emergenza, anche in considerazione della loro recente manifestazione. Del tutto confacente alla presente disamina risulta l'analisi di alcuni casi interessanti, in special modo in ordine al rilievo del dovere d'informazione. Uno di essi è certamente quello del piccolo Jod[2], caso discusso in primo grado presso il Tribunale di Padova[3], e giunto in Cassazione[4], dopo la conferma in appello, nel 1994. Invero, all'attenzione dei giudici, nel caso di specie, non è l'indiligente esecuzione dell'intervento di interruzione della gravidanza, bensì l'omessa informazione che il sanitario avrebbe dovuto garantire alla paziente, in merito alla necessità di sottoporsi a successivi controlli, soprattutto in considerazione della prevedibilità dell'esito negativo dell'intervento subito, e dalle intervenute dimissioni volontarie della paziente stessa. Ebbene, la Corte di Cassazione ha sanzionato il comportamento del sanitario -rectius della struttura sanitaria- proprio in punto di violazione del dovere d'informazione, a riprova della sua autonoma rilevanza, non solo in quanto presupposto ineliminabile per la prestazione del consenso da parte del paziente, ma anche come dovere che trova la sua origine nella condotta diligente del sanitario. Se ne può apprezzare altresì la necessaria consistenza nel tempo: il dovere d'informare il paziente non cessa né dopo la prestazione del consenso -detto per l'appunto informato né dopo le dimissioni volontarie che eventualmente il paziente stesso renda. Ma l'occasione è stata propizia anche per consentire alla Corte di Cassazione di criticare le prese di posizione dei giudici di merito in punto di individuazione degli interessi protetti dalla legge 194/1978 sull'interruzione di gravidanza; in considerazione dei profili d'interesse che tale pronuncia rappresenta ai fini del prosieguo della disamina in corso, ritengo opportuno riprenderne alcuni passaggi. La Suprema Corte ha nell'occasione sottolineato come non sia ammissibile concedere un risarcimento del danno patrimoniale subito dai genitori, per l'inaspettata nascita del figlio, sulla base dell'assunta difficile condizione economica degli stessi. Invero, la Corte di Cassazione ha ricordato che in sostanza la legge non consente l'interruzione della gravidanza solo perche' una donna versi in disagiate condizioni economiche, ma la consente soltanto se dette condizioni possano influire negativamente sulla salute della donna. L'interesse protetto dalla norma e' quindi la salute della donna; il diritto all'interruzione della gravidanza e' riconosciuto solo in ragione della tutela del detto interesse. Da cio' consegue che in caso di accertata responsabilita' del sanitario per la mancata interruzione della gravidanza, il diritto al risarcimento del danno puo' essere riconosciuto alla donna non per il solo fatto dell'inadempimento dell'obbligazione che il sanitario era tenuto ad adempiere, ma se sia anche provata la sussistenza della messa in pericolo o di un danno effettivo alla salute fisica o psichica della madre. Secondo i giudici della Suprema Corte il mancato riconoscimento dell'importanza di una corretta individuazione dell'interesse protetto dalla norma, ha compromesso l'obiettiva analisi da parte dei giudici di merito. Coerentemente quindi afferma la Corte di Cassazione che: il ragionamento della Corte di merito e' errato, perche', tenuto conto dell'interesse protetto dall'art. 4, il danno non puo' essere individuato nel solo fatto di aver dovuto prima del previsto sopportare gli oneri economici conseguenti alla intempestiva nascita del figlio, se non sia positivamente accertato che tale fatto abbia messo in pericolo ovvero abbia inciso negativamente sulla salute della donna, sotto l'aspetto fisico o psichico, nel qual caso il risarcimento del danno andrebbe determinato in quella somma necessaria a rimuovere le difficolta' economiche idonee ad incidere negativamente sulla salute della donna ovvero a risarcire quest'ultima dei danni alla salute in concreto subiti. Proseguendo nella disamina dei casi d'interesse per il corretto inquadramento della materia, mi propongo di analizzare un aspetto forse in parte trascurato. Se invero è stato a sufficienza sottolineato il ruolo dell'informazione e del consenso relativo, come elemento costitutivo del contratto di prestazione d'opera professionale, dal quale scaturisce il consenso come legittimante l'intervento del sanitario sulla persona del paziente, non si è forse argomentato a sufficienza in merito al perdurare del dovere d'informazione anche dopo l'effettuazione della terapia illustrata e dell'indagine diagnostica condotta. Un altro caso specifico, ancora inedito, può certo meglio descrivere l'autonoma rilevanza del dovere d'informazione: una donna, portatrice sana di una patologia a rischio per la gravidanza[5], rimasta incinta della seconda figlia, si reca presso il proprio ginecologo, al quale affida anche l'assistenza di tale seconda gravidanza. Su consiglio dello stesso medico, la paziente si reca presso altro presidio ospedaliero, al fine di effettuare un esame molto delicato -prelievo dei villi coriali- necessario a stabilire se anche il frutto del secondo concepimento fosse portatore della patologia di origine materna. L'esame comporta delle conseguenze devastanti sulla salute del feto, rilevate, tramite indagini ecografiche, solo intempestivamente -e colpevolmente- quando i termini per l'eventuale interruzione della gravidanza sono ormai decorsi. A questo punto il medico non ritiene di informarne i genitori, supponendo che simili anomalie fossero correlate a malformazioni degli organi interni tali da originare l’interruzione naturale della gravidanza o da non consentire la sopravvivenza dopo il parto del nascituro. Al termine della gravidanza la paziente, con parto spontaneo, da alla luce una bambina, la quale risulta affetta da un quadro polimalformativo[6] particolarmente grave. Fin qui i fatti. Cercherò ora di trarne alcune osservazioni. Se l'informazione e il consenso completo e cosciente del paziente all'indagine diagnostica ne legittimano l'effettuazione, integrando gli estremi della condotta diligente del professionista, quid iuris relativamente alla mancata indicazione al paziente degli esiti infausti dell'indagine diagnostica intrapresa ? Il tema è delicato e risente di valutazioni non solo tecniche e professionali ma anche e soprattutto umane e culturali, tanto più quando l'informazione investa prognosi gravi o infauste. Tra i fautori della tesi che esprime il proprio favor nei confronti della non manifestazione della verità in tutta la sua crudezza, si segnalano alcuni principi quali quello della beneficialità che, prevalendo sul dovere di non mentire, fonderebbe la propria validità sull'esigenza di non recare danno al paziente anche dal punto di vista psichico, e ancora quello dell'indesiderabilità del paziente di conoscere la verità quando spiacevole. A tali argomentazioni si oppongono altre valutazioni che prospettano, al contrario, una violazione della libertà ed autonomia del paziente, e la presunta volontà dello stesso di essere correttamente informato. Invero, il rapporto fiduciario che con il medico si instaura, presuppone un rapporto di reciproca informazione e lealtà, sulla base del quale si concreta l'affidamento del paziente nel medico stesso. Interrompere tale tipo di rapporto, delicatissimo e labile, consentendo una sorta di compressione di tali principi, in nome di valutazioni del tutto personali e non verificabili, potrebbe essere una scelta altrettanto ardua e non esente da pericoli, da relegare forse ad un limitato numero di casi, non definibili a priori, nei quali l'emersione di particolari debolezze psichiche unitamente a quadri clinici disperati, possano suggerire comportamenti di segno relativamente opposto rispetto al dovere ordinario d'informazione completa. Che il medico debba tenere sempre viva la speranza del paziente, giacché è comunque di fondamentale importanza, anche al cospetto di una prognosi infausta, che il suo quadro psicologico sia capace di sostenere scelte e produrre reazioni importanti di fronte alla malattia, è dato di fatto ineliminabile, anche nella prospettiva che la prognosi infausta possa rivelarsi eccessivamente pessimistica. In tali casi la comunicazione, per così dire filtrata e non del tutto "fedele", potrebbe risultare accettabile se funzionale ad un possibile risultato positivo e migliorativo, per quanto in via di presunzione, del quadro complessivo del paziente. Non sussistendo al contrario tali presupposti risulta più complesso rinvenire una causa giustificativa capace di poter derogare validamente al dovere di una completa informazione. La complessità del tema potrebbe ulteriormente aggravarsi in ipotesi, come quella di cui si discute, nelle quali il destinatario dell'informazione sia persona diversa da quella che di fatto è investita in concreto dalla prognosi infausta: mi riferisco al caso -per ultimo descritto- della donna in gravidanza, alla quale venga diagnostica, ma non comunicata, la presenza di malformazioni del feto. In tal caso il profilarsi dei doveri d'informazione in capo al medico potrebbe risentire di alcune considerazioni aggiuntive, quanto alla determinazione del suo contenuto. Il dato di fatto dal quale è impossibile prescindere consiste, come è chiaro, nella circostanza che il destinatario della diagnosi infausta è la madre, pur essendo pronosticate o già evidenti delle malformazioni che interessano il feto. Che il destinatario dell'informazione debba essere la madre non è in discussione, che l'induzione alla speranza possa avere l'identica valenza funzionalizzata ad un potenziale -per quanto remoto- miglioramento delle condizioni del malato -il feto- è considerazione da valutarsi, invero, con molta attenzione. Il quesito che sembra sottendere tali valutazioni è il seguente: può sostenersi che la comunicazione alla madre della diagnosi infausta ed intempestiva, per decorrenza dei termini previsti per l'interruzione di gravidanza, integri gli estremi di un comportamento diligente del sanitario ? L'applicazione del succitato principio di beneficialità avrebbe fondamento quanto alla sua funzione di preservare in qualche modo l'integrità psicofisica della madre e/o del feto ? Oppure dovrebbero comunque ritenersi prevalenti i doveri d'informazione posti in capo al medico che ha eseguito l'esame e rilevato, seppur intempestivamente, la malformazione esistente ? Le osservazioni di carattere deontologico appena accennate, aprono il varco per l'accesso a quelle più propriamente giuridiche. Che la diagnosi intempestiva integri di per sé gli estremi della colpa professionale -accertata nell'esempio poc'anzi illustrato- è profilo da valutarsi separatamente a quello altrettanto importante dell'omessa comunicazione tardiva. La scelta che si profila al medico è dunque se comunicare alla madre l'intempestiva diagnosi infausta, ovvero se evitarle lo shock, al fine di consentirle di portare innanzi una gravidanza senza che il turbamento psicologico possa in qualche modo influire negativamente sugli esiti della gravidanza stessa. La scelta è di non poca gravità, umana, professionale, morale. Altrettanto ardua è la valutazione che di tale comportamento è opportuno operare al fine di verificare la condotta del sanitario in punto di responsabilità. Possono venire in soccorso le valutazioni ricavabili dalla pregressa storia clinica e psicologica della madre, dalle sue concrete aspettative alle prevedibili complicazioni che potevano essere tenute in debita considerazione dal medico e comunicatele fin dall'inizio. Ove però risulti già obiettivamente noto un quadro clinico di rilevante pericolo, essendo la madre affetta da una patologia che comporti rischi per la gravidanza in corso, ne consegue in capo al medico un dovere di diligente informazione preventiva, in merito ai pericoli che tale quadro clinico poteva suggerire, commisurata allo stato delle conoscenze mediche di tempo e di luogo. L'errore diagnostico, indipendentemente dalla sua inescusabilità, aggrava il quadro da valutare, inserendo un ulteriore motivo di debolezza da parte della destinataria dell'informazione, unitamente al prodursi di una situazione di impossibilità di intervenire sulla gravidanza in atto, per decorrenza dei termini utili per l'eventuale interruzione della stessa. A tutto ciò si aggiunge la valutazione circa la gravità della malformazione rilevata, in rapporto all'impatto che sulla madre la notizia può avere. Il comportamento del medico, in punto di violazione del suo dovere d'informazione, deve essere valutato tenendo in considerazione tutti questi elementi concreti che hanno arricchito di profili di intensa emotività e conflittualità l'intera vicenda. In che misura possa soccorrere la scelta del medico il principio di beneficialità e di tutela dell'integrità psicofisica della madre è fattore da valutarsi con estremo rigore, in considerazione anche della responsabilità del medico che ha causato l'aggravarsi del quadro con l'intempestiva diagnosi. Tale particolare ritengo non possa essere sottovalutato. Il punto è se potevano ritenersi prevalenti le esigenze di tutela del normale esito del parto, al cospetto della successiva notizia, che pur si sarebbe appalesata al momento della nascita della piccola malformata, provocando anche in quella sede delle ripercussioni violentissime sulla psiche della madre che, oltre al dolore per la constatazione delle condizioni fisiche della neonata, avrebbe dovuto fare i conti con una sensazione di tradimento delle aspettative e del rapporto di fiducia con il medico, non meno gravi.A sommesso avviso dello scrivente, una soluzione a tali deleterie conseguenze poteva esserci, ed era quella di informare la madre dell'intempestiva diagnosi di lesioni malformanti che interessavano purtroppo la piccola, impegnandosi semmai in quella sede a fornire l'informazione nel segno della salvaguardia dell'equilibrio psicofisico della madre, potendosi in tal modo valutare con benevolenza la mancata comunicazione della gravità delle malformazioni stesse nella loro completezza, e mettendo comunque la madre in condizione di assorbire, per quanto possibile, il probabile contraccolpo psicologico, con tutti gli strumenti di assistenza che la struttura ospedaliera poteva offrire su richiesta del medico interessato. Appare diversamente non del tutto accettabile che la scelta dell'entità e del tempo delle sofferenze, che immancabilmente la madre avrebbe subito, sia del tutto ed incondizionatamente lasciata alla decisione -del medico- di non informare la madre stessa dell'intempestiva nefasta diagnosi, impedendo di fatto a quest'ultima di esercitare, per quanto in condizioni assai limitate, la propria autonomia e libertà di conoscenza, e interrompendo la fiduciarietà del rapporto, tradendo in tal modo l'affidamento che la paziente aveva impegnato nel rapporto con il suo medico. In senso conforme sembra essersi pronunciata la giurisprudenza, in una sentenza del Tribunale di Roma[7], quando ha dovuto affrontare un caso simile a quello appena descritto: in questo caso però sussiste una differenza di rilievo consistente nella valutazione temporale dei comportamenti che si sono succeduti. I genitori, invero, si sono rivolti ad un Centro di diagnostica prenatale, dopo la decorrenza dei novanta giorni previsti dalla legge n. 194/1978, vale a dire allorquando la madre, quand'anche avesse appreso, a seguito di esami non negligenti, le notevolissime malformazioni del nascituro, non avrebbe, comunque, potuto legittimamente abortire, ne' ai sensi dell'art. 4 della legge n. 194 del 1978, ne' ai sensi dell'art. 6 della cit. legge, dato che le pur gravissime malformazioni, riguardando il solo apparato scheletrico ed articolare, senza intaccare la sfera della coscienza e delle facolta' intellettive del minore, rimasta del tutto integra, e senza comportare una prognosi infausta circa la durata di sua vita, non sono tali da determinare un grave pericolo per il benessere psicofisico della madre. E' invece risarcibile il danno biologico cagionato ai genitori di una neonata cui non siano state diagnosticate, in sede di negligenti esami ecografici prenatali, notevolissime malformazioni scheletriche ed articolari. A ragione pertanto i giudici hanno escluso la sussistenza del nesso di causalità tra il danno subito dal feto e la condotta dei sanitari, aprendo però una breccia consistente quanto ad altra domanda dei genitori, ossia quella relativa al risarcimento del danno, da loro patito, in ragione della mancata informazione sull'esistenza delle malformazioni.In questo senso appare simile la decisione in questione rispetto al caso analizzato in precedenza, nel quale in realtà la diagnosi intempestiva è stata seguita dalla presa di coscienza -altrettanto intempestiva- da parte del medico, delle malformazioni, sulle quali lo stesso sanitario ha scelto di tacere, mentre nel caso analizzato dal Tribunale di Roma non è in questione una scelta, in quanto sembra che i sanitari non abbiano potuto effettuarla, data la negligente condotta in sede di diagnosi. In altre parole non hanno comunicato ciò che non avevano appreso per la negligente effettuazione dell'indagine diagnostica. Ad ogni buon conto il rilievo che assume maggior importanza, e che accomuna, seppur parzialmente, i casi, è quello che attiene, da un lato alla richiesta del danno sofferto per non aver potuto accedere alle possibilità di interruzione della gravidanza, dall'altro quello attinente alla richiesta di risarcimento del danno patito per aver subito, al momento del parto, uno shock certamente superiore a quello che sarebbe derivato dalla consapevolezza delle malformazioni, ove fossero state comunicate tempestivamente. Le scelte del Tribunale di Roma sembrano condivisibili anche sotto tale profilo, trovandovi conferma l'ipotesi interpretativa dallo scrivente sommessamente avanzata in precedenza. I giudici affermano infatti che: E' invece risarcibile il danno biologico cagionato ai genitori di una neonata cui non siano state diagnosticate, in sede di negligenti esami ecografici prenatali, notevolissime malformazioni scheletriche ed articolari. Il mezzo attraverso il quale la rilevanza autonoma del dovere d'informare assume significato peculiare, sussiste proprio nel riconoscimento che i giudici danno al trauma che i genitori hanno subito per aver appreso, solo all'atto della nascita della piccola, la notizia della triste realtà, subendo in tal modo un contraccolpo psicologico certamente più grave di quanto non sarebbe accaduto qualora l'informazione fosse stata tempestiva. Ma la pronuncia appare importante anche perché fa trasparire un ulteriore profilo d'interesse, secondo quanto affermato, in sede di commento alla pronuncia, da Dogliotti[8], lasciando intendere che sarebbe stato risarcibile anche il danno relativo alle spese mediche e alla lesione della salute psichica dei genitori, ove gli esami fossero stati richiesti prima della decorrenza dei termini per l'interruzione consentita della gravidanza, concretandosi la possibilità di scelta -anche se solo eventuale- diretta all'interruzione della gravidanza stessa. Tuttavia a tale rilievo sembra opporsi altra argomentazione, tratta dal brano di sentenza più sopra riportato[9], e riferita al diniego di risarcimento delle maggiori spese sostenute dai genitori a causa della nascita di un figlio in seguito all'infelice esito dell'intervento di interruzione di gravidanza. Nelle pagine precedenti si è già illustrato il ragionamento della Suprema Corte, secondo la quale, in aperto contrasto con i giudici di merito, la corretta individuazione del bene tutelato dagli artt. 4 e 6 della L. 194/1978 è la salute della madre, non le condizioni economiche dei genitori. Pertanto il danno risarcibile sembra individuabile nella misura in cui vi sia stata una lesione della salute della madre. Quest'ulteriore osservazione consente di completare l'analisi che ho tentato di illustrare, in ordine al caso inedito che ho descritto, potendo affermare che se l'errore diagnostico si verifica in un periodo che consenta ancora l'intervento per interruzione della gravidanza, spetta alla madre, che ne faccia richiesta, un risarcimento del danno sia sotto il profilo patrimoniale -spese mediche e similari- sia sotto quello non patrimoniale, se provata, secondo quanto detto poc'anzi, una lesione alla salute della richiedente, spettando altresì ad entrambi i genitori un congruo risarcimento relativo al danno biologico da essi subito per aver appreso -ignari delle malformazioni esistenti- la realtà dolorosa della salute della figlia solo al momento della nascita, quando la loro attesa era del tutto inconsapevole e ben lontana dal prefigurarsi un accadimento sì penoso. Infine, rimanendo sul terreno dell'individuazione dell'esatta dimensione del dovere d'informazione, può essere utile sottolineare un aspetto al quale si è fatto incidentalmente accenno in queste pagine, in merito all'interrogativo che nasce dall'individuazione del persistere del dovere d'informazione del medico anche in presenza di dimissioni volontarie del paziente. Ebbene la soluzione accolta è nel senso della permanenza di tale dovere, tanto più nel caso in cui il paziente abbia deciso di dimettersi volontariamente, creando potenzialmente una situazione di maggior rischio, a fronte della quale la diligenza del professionista deve esprimere uno sforzo ulteriore, e del tutto coerente con le premesse fin qui illustrate, affinché la scelta del paziente possa essere, per quanto possibile, cosciente.
Avv. Nicola Todeschini www.studiolegaletodeschini.it membro dello Studio Legale Consumerlaw
Note: [1] Si veda in proposito l'appendice sui profili assicurativi, in specie con riferimento all'impatto delle direttive sulla tutela del consumatore.
[2] Richiamato anche da A. SPIRITO, Op. cit., 28.
[3] Tribunale Padova 9 agosto 1985: L'insuccesso dell'intervento per interruzione della gravidanza, accompagnato dalla negligenza del medico nel prescrivere i controlli o nell'informare dell'esito la paziente, che lascia cosi' proseguire la gestazione, determina il diritto al risarcimento del danno derivante dai maggiori disagi affrontati per effetto della nascita avvenuta in un momento di difficolta', nonche' dagli ostacoli che i nuovi doveri verso il figlio abbiano portato alla realizzazione anche economica della coppia. - Nodari e altro c. Universita' studi Padova e altro, in Nuova giur. civ. commen., 1986, I,115 (nota).
[4] Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464: E' responsabile la struttura sanitaria per violazione del dovere di informativa del paziente circa le conseguenze dell'intervento ed i suoi possibili esiti, stante che il dovere di informativa rientra tra quelli del medico (ed a maggior ragione nel caso di interruzione volontaria della gravidanza ai sensi dell'art. 14 l. 22 maggio 1978 n. 194, essendo l'esito negativo dell'intervento un evento prevedibile, dimostrato dal fatto che per aversi la certezza dell'esito favorevole e' necessario procedere all'esame istologico). Tale dovere di informativa non viene meno per effetto della dimissione volontaria da parte del paziente. Usl n. 21 Padova c. Petix e altro, in Riv. it. medicina legale, 1995, 1282; in Rass. dir. civ., 1996, 342 nota (CARUSI).
[5] Tale traslocazione di tipo robertsoniano 13/14 bilanciata familiare.
[6] Più precisamente trattasi di: quadro malformativo ad espressione eterogenea, noto in letteratura medica come sindrome oro-acrale o di Hanart, caratterizzato da ipoplasia oro-madibolare (micrognazia e microglossia, cioè riduzione dello sviluppo della mandibola e della lingua), da ipoplasia-aplassia degli arti (agenesia, cioè assenza, delle ultime tre vertebre sacrali e di entrambi gli avambracci; arresto di sviluppo ad altezza del ginocchio dell’arto inferiore sinistro; ipodattilia al piede destro), nonché da ulteriori malformazioni delle vie respiratorie e dell’apparato urinario […].
[7] Tribunale Roma, 13 dicembre 1994, Visona' e altro c. Soc. Artemisia e altro, in Dir. famiglia, 1995, 662 nota (CONTE); in Dir. famiglia, 1995, 1474 nota (DOGLIOTTI).
[8] Cfr. nota n. 119.
[9] Il riferimento è alla sentenza Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464, Usl n. 21 Padova c. Petix e altro, in Riv. it. medicina legale, 1995, 1282; in Rass. dir. civ., 1996, 342 nota (CARUSI), sub nota n. 116.
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