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Pillole di EBM - Capitolo 10

Categoria : scienze_varie
Data : 07 febbraio 2007
Autore : admin

Intestazione :

In questo capitolo ci occuperemo dell'analisi dei dati secondo l'intenzione a trattare o "Intention to treat".



Testo :

Dico subito che qui stiamo affrontando un aspetto che è abbastanza complicato da spiegare e da capire. Con il termine “intenzione a trattare o intention to treat “ si intende che l’analisi dei risultati viene effettuata considerando i pazienti secondo il gruppo cui erano stati originariamente assegnati e non se hanno assunto o meno il farmaco.
Cercherò di spiegarmi meglio con un esempio, altrimenti detta così la cosa può apparire anche più astrusa di quanto sia in realtà.
Dei ricercatori si propongono di valutare un farmaco che, da studi precedenti, si sa ridurre l'infarto nei pazienti con tre o più fattori di rischio. Il loro scopo è vedere se funziona anche nei pazienti con un solo fattore di rischio. Arruolano così 10.000 pazienti con un fattore di rischio per infarto (fumo o ipertensione o colesterolo > 250 mg/dL) e li randomizzano in due gruppi di 5.000 ciascuno; a un gruppo somministrano il farmaco in esame e all’altro somministrano un placebo. Si valuterà il numero di infarti dopo 5 anni. Tuttavia succede, per motivi vari (scarsa compliance, effetti collaterali pesanti, ecc.) che 1.500 pazienti del gruppo trattamento smettono precocemente il farmaco. Al contrario a 800 pazienti del gruppo controllo viene somministrato il farmaco perché, ad un certo punto, diventano ad alto rischio cardiovascolare con comparsa di ulteriori fattori di rischio e non sarebbe etico lasciarli senza trattamento.

Lo schema sotto riassume quello che si verifica durante il follow-up dello studio:

10.000 pazienti arruolati, follow-up 5 anni
5.000 randomizzati a farmaco -> 1.500 stop farmaco + 3.500 continuano farmaco
5.000 randomizzati a placebo -> 800 iniziano farmaco + 4.200 continuano placebo

In definitiva si verifica che:
- hanno assunto il farmaco 4.300 pazienti (3.500 del gruppo trattamento e 800 del gruppo controllo)
- non hanno assunto il farmaco 5.700 pazienti (4.200 del gruppo controllo e 1.500 del gruppo trattamento).

Lo schema che segue mostra invece quanto viene registrato al termine del follow-up di 5 anni:

5.000 randomizzati a farmaco:
- 1.500 hanno smesso farmaco -> 90 infarti
- 3.500 hanno continuato farmaco -> 175 infarti

5.000 randomizzati a placebo:
- 800 hanno iniziato farmaco -> 40 infarti
- 4.200 hanno continuato placebo -> 252 infarti

Sommando gli infarti non in base al gruppo cui erano originariamente allocati i pazienti ma in base all’assunzione o meno del farmaco si ottiene quindi:

- 215 infarti nel gruppo che ha assunto il farmaco (175 + 40)
- 342 infarti nel gruppo che non ha assunto il farmaco (252 + 90)

Se si analizzano i dati in questo modo il trattamento ottiene una riduzione del rischio di infarto del 18%, significativa dal punto di vista statistico (RR 0,82; IC95% 0,69-0,98). Non ho mostrato tutti i calcoli per arrivarci, ma fidatevi.

Tuttavia se i dati vengono analizzati secondo l’intenzione a trattare (cioè valutando quanti infarti ci sono stati nei 5.000 pazienti originariamente allocati nel gruppo trattamento e nei 5.000 originariamente allocati nel gruppo controllo, indipendentemente dall’aver o meno assunto il farmaco) si ottiene:

- infarti nel gruppo trattamento 265 (175 + 90)
- infarti nel gruppo controllo 292 (252 + 40)

La riduzione del rischio ottenuta con il trattamento è del 10%, non significativa dal punto di vista statistico (RR 0,90 , IC95% 0,76-1,07).

I numeri di questo esempio sono stati appositamente elaborati per mostrare che se non si fa un'analisi "intention to treat" si possono ottenere risultati diversi. Non è detto che sia sempre così ma è un' eventualità possibile.
Anche facendo l'analisi solo dei pazienti che hanno seguito il protocollo (cioè considerando nel gruppo trattamento solo quelli che hanno preso il farmaco e nel gruppo controllo quelli che non lo hanno preso), metodo che viene detto "analisi per protocol", si possono avere delle distorsioni.

Ma perchè, direte voi, non è giusto fare un'analisi considerando l'assuzione o meno del farmaco?
Un motivo, per esempio, potrebbe essere che i 1.500 pazienti che hanno sospeso il farmaco sono quelli più a rischio, oppure più fragili dal punto di vista clinico, o coloro che non tollerano il trattamento, ecc. Contarli come appartenessero al gruppo placebo vuol dire sottrarre al gruppo trattamento dei soggetti che vi erano stati preventivamente assegnati e si va a rompere perciò la randomizzazione, cioè quel particolare artificio tecnico che gli studiosi mettono in atto per far sì che i due gruppi (trattamento e controllo) siano sovrapponibili, con fattori di rischio noti e non noti equamente distribuiti. Se fosse vero che i 1.500 che interrompono il trattamento sono i soggetti più anziani o con patologie cardiovascolari associate e quindi di per sé già a rischio maggiore di infarto, incorporarli nel gruppo placebo o comunque sottrarli al gruppo trattamento, diventa, se vogliamo usare un termine sportivo, sleale.

Sapere se i risultati di uno studio sono stati ottenuti con l’analisi "intention to treat" o meno è importante perchè un'analisi non effettuata secondo questa modalità può portare a sovrastimare l’efficacia di un trattamento, anche se non sempre è così. In ogni caso, come ho appena detto, ignorare "l'intention to treat" significa rompere quel delicato meccanismo della randomizzazione messo in atto appositamente perchè i due gruppi confrontati siano paragonabili e quindi ci scompiglia le carte in tavola. Siccome risulta difficile per un lettore medio capire con quale modalità i ricercatori hanno effettuato l’analisi, è opportuno focalizzare sempre l’attenzione su questo punto: se i ricercatori non dichiarano esplicitamente che l’analisi e stata eseguita secondo tale modalità, può essere che qualcosa non quadri.

Dato che si tratta di un aspetto ostico, per illustrare l'intention to treat farò due esempi tratti da due studi reali che dimostrano come un'analisi non intention to treat possa portare a interpretazioni fuorvianti.

Il primo è lo studio HOT (Hypertension Optimal Treatment) in cui erano stati arruolati quasi 19.000 pazienti ipertesi con pressione arteriosa diastolica (PAD) compresa tra 100 e 115 mmHg.
I pazienti vennero randomizzati in tre gruppi:
- un gruppo doveva raggiungere una PAD inferiore a 90 mmHg (gruppo A)
- un gruppo aveva l’obiettivo di arrivare a valori inferiori a 85 mmHg (gruppo B)
- in un gruppo la PAD doveva scendere sotto gli 80 mmHg (gruppo C)
Per arrivare a questi obiettivi inizialmente veniva somministrato un calcio-antagonista e se non si raggiungeva il valore prefissato di PAD si potevano aggiungere altri ipotensivi. Lo scopo dello studio era di dimostrare che a più bassi valori di PAD raggiunti con la terapia corrispondeva una riduzione degli eventi cardiovascolari.
Al termine dello studio si ebbero i seguenti risultati:
- gruppo A: 9,9 eventi cardiovascolari per 1000 pazienti
- gruppo B: 10 eventi cardiovascolari per 1000 pazienti
- gruppo C: 9,3 eventi cardiovascolari per 1000 pazienti
Lo studio quindi risultò negativo e non riuscì a dimostrare (esclusa la sottopopolazione di pazienti diabetici) che raggiungere una PAD inferiore a 80 mmHg è meglio che arrivare a una PAD inferiore a 90 mmHg. Tuttavia nell'abstract dello studio si legge che la più bassa incidenza di eventi cardiovascolari si è avuta per una PAD di 82,6 mmHg. Come si è arrivati a queste conclusioni? Semplicemente osservando a quali valori di PAD si avevano meno eventi ma indipendentemente dal gruppo in cui si trovavano i pazienti. Ciò significa che alcuni dei pazienti che avevano avuto meno eventi si trovavano nel gruppo A, altri nel gruppo B, altri ancora nel gruppo C. In altre parole si è fatta una analisi dei risultati non sulla base del gruppo ma sulla base del risultato senza tener conto del braccio di appartenenza, quindi non in base alla intenzione a trattare. Così succede che lo studio HOT viene comunemente citato a dimostrazione di maggior efficacia della terapia aggressiva dell’ipertensione, ma si ignora che in realtà il trial ha avuto esito negativo.

Il secondo esempio è uno studio, pubblicato da ricercatori canadesi, sulla efficacia dello screening del cancro della prostata. In questo caso quindi non si tratta di terapia farmacologica ma di un intervento diverso (screening). Lo studio suggeriva che lo screening è efficace nel ridurre la mortalità. Tuttavia solo il 23,1% dei soggetti invitati allo screening aveva risposto, mentre quelli che non avevano risposto erano stati inseriti nel gruppo non screenato. In tal modo si è creato un evidente bias di selezione per cui i due gruppi (screenati e no) non erano paragonabili. Ormai dovrebbe essere chiaro che cosa vuol dire questa espressione: è evidente che chi risponde ad un invito allo screening è di solito più giovane e più in salute di chi non risponde, pertanto "non è leale" paragonare i due gruppi. Si doveva invece prendere chi aveva risposto e randomizzare costoro in due gruppi, uno sottoposto allo screening e uno che funzionava da controllo. Inoltre quasi 1000 pazienti che originariamente facevano parte del gruppo controllo furono in seguito sottoposti allo screening e gli autori allora li inserirono nel gruppo screenato, analizzando i dati non più secondo l'intention to treat (in questo caso sarebbe più giusto dire "intention to screen"). Lo studio venne infatti ampiamente criticato, proprio per questi gravi errori metodologici. Ci fu anche chi si prese la briga di rianalizzare i dati secondo "l'intention to screen": la riduzione della mortalità nel gruppo screenato scompariva come per incanto.



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