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Medici specializzandi e diritto al risarcimento: prescrizione

Categoria : professione
Data : 01 gennaio 2004
Autore : admin

Intestazione :

La "prescrizione del diritto" puo' precludere il risarcimento dei medici specializzati 1983/91
(Sentenza TAR Lazio n. 5927/02)



Testo :

La recente sentenza della Cassazione (Sezione Terza Civile n. 7630 del 16 maggio 2003 ) che ha riconosciuto il diritto dei medici, specializzatisi nel periodo 1983/91, ad essere risarciti delle somme che avrebbero dovuto ricevere quale compenso mensile in tale periodo, ha risvegliato le speranze da parte di tutti gli interessati.
Come abbiamo pero' esposto in un nostro precedente articolo pubblicato su Edott (Lo specializzando che non ha percepito il compenso stabilito dalle norme comunitarie ha diritto al risarcimento da parte dello Stato ) il diritto al risarcimento non era pacifico, in quanto andavano valutate alcune circostanze, come ad esempio le eventuali attivita' lavorative svolte all' epoca e, in particolare, il problema della prescrizione del diritto.
Come e' noto, i termini per la prescrizione dei diritti patrimoniali varia tra i 5 ai 10 anni, con possibilita' di derogare a tali termini qualora, ad esempio, permanga una continuita' di rapporto tra i due interessati.
Il TAR Lazio, investito a suo tempo del problema, ha stabilito infatti che, nel caso in esame, il termine di prescrizione fosse quello piu' breve (5 anni) , trattandosi di somme da corrispondersi "ad anno" ai sensi dell’art. 2948 n. 4 c.c. (v. precedenti sentenze del TAR del Lazio, n. 640 del 1999 e n. 6691 del 2001) a decorrere dall’epoca in cui i diritti in questione avrebbero dovuto essere fatti valere (Cass. Civ., Sez. lav., 3 giugno 2000, n. 7437).
La data "critica", quella cioe' della maturazione del diritto, da cui vanno calcolati i cinque anni, coincide con la conclusione di ciascun anno accademico in cui il medico ha frequentato il corso di specializzazione o, al più tardi, dalla data in cui questo diritto è stato sostanzialmente negato, (coincidente con quella di emanazione del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257, di attuazione della direttiva 82/76CEE con decorrenza solo dall’anno accademico 1991/1992, cioe’ottobre 1991).
L' opportunita' di un ricorso giudiziario finalizzato al risarcimento del danno va quindi valutata prendendo in considerazione anche questo aspetto in quanto, qualora il medico non avesse effettuato idonee procedure interruttive, i diritti sarebbero da considerare prescritti dopo tali termini. Le procedure interruttive potrebbero consistere, ad esempio, nella ripetizione (entro i termini) delle richieste di rimborso mediante lettera raccomandata.

Il discorso non puo' pero' considerarsi concluso, in quanto potranno intervenire ulteriori pronunce da parte, ad esempio, del Consiglio di Stato o di altri organi giurisdizionali o legislativi. Gli interessati faranno bene percio' a consultare un legale veramente esperto.
Daniele Zamperini


Il testo della sentenza n. 5927/02
(il testo qui riportato non ha valore ufficiale)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DEL LAZIO
SEZIONE III BIS

composto dai Signori Magistrati: Consigliere Roberto SCOGNAMIGLIO Presidente Consigliere Vito CARELLA Relatore Consigliere Antonio AMICUZZI Componente ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso n. 10743 del 2001 proposto da FRANCO Maria Domenica, rappresentata e difesa dall’avvocato Fabio Vitale e presso lo stesso elettiv.te dom.ta in Lecce, Via B. Mazzarella n. 8;
C O N T R O
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca Scientifica, per legge rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato; PER OTTENERE adeguati provvedimenti giurisdizionali che si possono nella sostanza riassumere nelle domande che seguono: PER L’ANNULLAMENTO
con fissazione di C.C. si sensi e per gli effetti di cui all’art. 2 della legge n. 205/2000
del silenzio illegittimamente serbato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca sulle istanze presentate dalla ricorrente per la corresponsione delle borse di studio, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 della legge n. 370/1999, relative ai medici ammessi alla frequenza delle scuole di specializzazione in medicina, negli anni accademici precedenti all’A.A. 1991/92; nonché per l’annullamento
nei limiti degli interessi della ricorrente, del Decreto 14 febbraio 2000 del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 72 del 27 marzo 2000, nelle parti in cui, in violazione delle direttive 82/76/CEE e 75/362/CEE (oggi trasfuse nella direttiva 93/16/CEE), dispone che:  gli aventi diritto alla corresponsione di una borsa di studio, in qualità di medici ammessi alle scuole di specializzazione in medicina dall’anno accademico 1983/84 all’anno accademico 1990/91, sono solo i destinatari delle sentenze passate in giudicato del TAR Lazio (Sez. I bis), n. 601 del 1993, n. 279 del 1994, n. 280 del 1994, n. 281 del 1994, n. 282 del 1994, n. 283 del 1994; nonché, ove occorra e nei limiti degli interessi dei ricorrenti per l’annullamento
del medesimo Decreto 14 febbraio 2000 del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, laddove stabilisce, in contrasto con l’allegato alla direttiva 75/363/CEE, introdotto dalla direttiva 82/76/CEE che:
 il diritto alla corresponsione di una borsa di studio spetta solo ai medici che non abbiano svolto, per tutta la durata del corso di specializzazione, qualsiasi attività libero professionale esterna, nonché attività lavorativa anche in regime di convenzione o di precarietà con il Servizio Sanitario Nazionale;
 ed ancora, nella parte in cui statuisce che sono esclusi dalla corresponsione della borsa di studio per gli anni della durata del corso:
1. - coloro che non hanno partecipato alla totalità delle attività mediche dedicando a tale formazione pratica e teorica tutta la propria attività professionale per tutta la durata della settimana lavorativa e per tutto l’anno;
2. - coloro che non abbiano dichiarato il mancato svolgimento per tutta la durata del corso di specializzazione di qualsiasi attività libero professionale esterna, nonché di attività lavorativa anche in regime di convenzione o di precarietà con il Servizio sanitario nazionale, così come richiesto dall’art. 1, comma 3, punto 6), del decreto medesimo;
3. - coloro che per tutti gli anni di corso abbiano percepito borse di studio, a qualsiasi titolo, per qualsiasi importo, quale che sia il soggetto erogatore;
4. - coloro che non abbiano concluso il corso di specializzazione ovvero non abbiano recuperato i periodi di sospensione di cui all’art. 5, comma 3, del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257 o abbiano sospeso la frequenza dei corsi per motivi diversi da quelli previsti dal citato articolo;
e, limitatamente ai ricorrenti che hanno inviato l’istanza di corresponsione della borsa di studio al M.U.R.S.T. successivamente al 27 giugno 2000, nella parte in cui stabilisce che le istanze dovevano pervenire allo stesso Ministero entro tre mesi dalla data di pubblicazione del decreto medesimo, a pena di decadenza; e per la disapplicazione
delle disposizioni contenute nell’art. 11 della legge 19 ottobre 1999, n. 370 nelle parte contrastanti con le disposizioni di cui alle direttive 82/76/CEE e 75/363/CEE; nonché per l’accertamento del diritto della ricorrente a percepire comunque un adeguato compenso, ai sensi e per gli effetti delle direttive 82/76/CEE e 75/362/CEE (oggi trasfuse nella direttiva 93/16/CEE), per aver frequentato corsi di specializzazione post universitari di medicina e chirurgia nel periodo che parte dall’A.A. 1983/84 sino all’A.A. 1990/91; per il risarcimento dei danni subiti dalla ricorrente a causa della mancata ottemperanza da parte dello Stato Italiano all’obbligo, imposto a tutte le normative degli Stati membri della CEE, di prevedere entro e non oltre il 31 dicembre 1983 che tutti i corsi di specializzazione debbano svolgersi, di regola, con frequenza a tempo pieno e con diritto ad una remunerazione adeguata.
Ove occorra e, comunque, in via meramente subordinata: per la remissione degli atti e del procedimento alla Corte Costituzionale giacché ritenuta manifestamente non infondata e rilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 della legge 19 ottobre 1999, n. 370, per violazione degli artt. 3, 10, 11, 35 e 97 della Costituzione, nonché per gli stessi motivi del decreto ministeriale 14 febbraio 2000.
Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Avvocatura Generale dello Stato; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Alla camera di consiglio del 20 maggio 2002 su relazione del Cons. Vito Carella uditi, i difensori come da verbale d’udienza. Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
1. Le scuole di specializzazione annesse alle facoltà di medicina e chirurgia delle Università, alle quali potevano accedere i medici – chirurghi già abilitati all’esercizio della professione, erano disciplinate in piena autonomia dai singoli statuti delle Università (d.P.R. 10 marzo 1982 n. 162). L’esigenza di assicurare in Europa uniformità alla professione del medico – chirurgo, ispirata al principio di libera circolazione in ambito comunitario, condusse alla emanazione di due direttive del Consiglio: la direttiva 75/362/CEE del 16 giugno 1975 (c.d. “di riconoscimento”) relativa al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati e altri titoli di medico e contenente misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di medico; la direttiva 75/363/CEE del 16 giugno 1975 (c.d. “di coordinamento”) relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’attività del medico - chirurgo nel territorio comunitario.
Una prima trasposizione nel diritto italiano delle direttive 75/362/CEE e 75/363/CEE venne attuata con legge 22 maggio 1978 n. 217 sul diritto di stabilimento e libera prestazione di servizi da parte dei medici cittadini di Stati membri della Comunità europea, che riguardava sia i medici (generici), sia i medici specialisti. Le due direttive innanzi ricordare vennero successivamente modificate dalla direttiva 82/76/CEE del 26 gennaio 1982 relativa alla formazione dei medici specialisti. Alla la formazione dei medici generici (formazione specifica in medicina generale) provvederanno l’art. 5 della legge di delega 30 luglio 1990 n. 212 e il decreto legislativo 8 agosto 1991 n. 256 di attuazione della direttiva 86/457/CEE del 15 settembre 1986.
Nei provvedimenti sopra citati, relativi alla formazione dei medici specialisti (raccolti nella direttiva 82/76/CEE), sono prescritti i requisiti minimi del corso di formazione che il medico deve frequentare, assicurando la sua partecipazione alla totalità delle attività mediche proprie del servizio nel quale è acquisita la specializzazione, comprese le guardie, in modo che sia dedicata alla formazione pratica e teorica la intera attività professionale, per la durata della normale settimana lavorativa e per tutto l’anno secondo “le modalità fissate dalle autorità competenti”. In considerazione dell’impegno esclusivo richiesto, tale formazione “forma pertanto oggetto di una adeguata rimunerazione”. Una attenzione particolare è dedicata ai casi, che non potevano essere ignorati, dei corsi di formazione “a tempo ridotto”: realtà evidentemente non gradita (nel preambolo della direttiva 82/76/CEE è prevista la soppressione della formazione a tempo ridotto non conforme ai requisiti minimi indicati nella direttiva medesima), per la quale sono fissate regole rigorose rivolte ad assicurare che la “durata totale e la qualità della formazione non siano inferiori a quelle della formazione a tempo pieno”; essa risponde alle stesse esigenze di quest’ultima, dalla quale si distingue unicamente per la possibilità di limitare la partecipazione alle attività mediche a una durata corrispondente quanto meno alla metà di quella prevista per il tempo pieno. E infatti, l’art. 20 della direttiva 82/76/CEE, che sostituisce l’art. 3 della direttiva 75/363/CEE, afferma il principio della formazione a tempo pieno con possibilità che le autorità nazionali competenti “per singoli casi giustificati” autorizzino una formazione a tempo ridotto quando non sia realizzabile una formazione a tempo pieno.
Di conseguenza, la frequenza ai corsi può non estendersi “per l’intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell’anno” purché, con i tempi di recupero, la “durata totale” sia perfettamente identica, sì da formare specialisti di identica “qualità”. L’occasione offerta ai medici di specializzarsi frequentando corsi di formazione a tempo ridotto, in maniera compatibile con la possibilità di esercitare a titolo privato una attività professionale rimunerata (cfr.: art. 10 direttiva 82/76/CEE innanzi citato), giustifica la determinazione di una “rimunerazione adeguata”, cioè proporzionalmente ridotta. In via del tutto transitoria e in deroga al citato art. 10 della direttiva 82/76/CEE (art. 3 direttiva 75/363/CEE) è consentito agli Stati-membri (art. 12 direttiva 82/76/CEE, che sostituisce l’art. 7 della direttiva 75/363/CEE) applicare il vecchio ordinamento dei corsi a tempo ridotto non retribuiti (comprensivo delle relative disposizioni legislative, regolamentari e amministrative) ai candidati che abbiano iniziato la loro formazione entro e non oltre il 31 dicembre 1983 come una ipotesi eccezionale, ammissibile solo su richiesta e nell’esclusivo interesse del singolo medico (sebbene non per “singoli casi giustificati”, come ammesso a règime dall’art. 10 della direttiva 82/76/CEE) il quale si trovi nelle condizioni, obbiettivamente accertate, di non potere seguire il règime generale dei corsi, che è quello del tempo pieno retribuito.
Il rigore comunitario, che in generale non ammette deroghe alla completezza della formazione (tanto da richiedere il recupero anche nella formazione a tempo pieno nei casi di legittima interruzione per motivi quali: il servizio militare, missioni scientifiche, gravidanza, malattia), persegue l’obiettivo di assicurare una formazione seria, omogenea ed effettiva per le specializzazioni mediche che si conseguono presso i diversi ordinamenti a tutela degli utenti di tutta la Comunità. D’altra parte, per il reciproco riconoscimento dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli di medico specialista, nonché per mettere tutti i professionisti cittadini degli Stati – membri su una base di parità all’interno della Comunità, era necessario dettare disposizioni che coordinassero (sia per le specializzazioni comuni a tutti gli Stati dell’Unione, che per quelle comuni quanto meno a due o più Stati – membri) le condizioni di formazione del medico specialista, fissando in particolare criteri minimi concernenti l’accesso alla formazione specializzata, la sua durata più breve, il modo e il luogo in cui quest’ultima debba essere effettuata, nonché il controllo di cui debba formare oggetto e da parte di quali organismi.
La direttiva in esame si chiude (articoli 16 e 17) con la prescrizione rivolta agli Stati – membri “destinatari della presente direttiva” di adottare le misure “necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro e non oltre il 31 dicembre 1982”. Lo Stato italiano rimaneva inadempiente ed era, pertanto, condannato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee che, con sentenza del 7 luglio 1987 (causa 49/86), accertava che la Repubblica italiana non aveva adottato nel termine prescritto le disposizioni necessarie per conformarsi alla direttiva 82/76/CEE ed era venuta meno agli obblighi che su di essa incombono in forza del Trattato istitutivo della Comunità europea. A questo stato di cose poneva (tardivamente) rimedio il legislatore con decreto legislativo 8 agosto 1991 n. 257, adottato su delega conferita con legge 29 dicembre 1990 n. 428 (c.d. legge comunitaria del 1990). Era, difatti, istituita una borsa di studio a favore dei medici specializzandi determinata per l’anno 1991 in lire 21.500.000 da corrispondersi per tutta la durata del corso di formazione. L’importo sarebbe stato incrementato annualmente (a decorrere dal 1° gennaio 1992) in misura corrispondente al tasso programmato di inflazione sulla base di un decreto del Ministero della sanità da emanarsi ogni tre anni.
L’art. 8, comma secondo, del decreto legislativo 257 del 1991 fissava la decorrenza del beneficio dall’anno accademico 1991-92, escludendovi pertanto sia i medici che avevano cominciato il corso di specializzazione dal 1° gennaio 1983 in poi e conseguito il titolo prima del 1991, sia i medici che nel 1991 ancora frequentavano il corso cominciato in anni precedenti. In altri termini, il legislatore escludeva dal nuovo ordinamento (fondato sulla retribuibilità dei corsi e sul valore autonomo del titolo conseguito) i medici ammessi alle scuole negli anni precedenti al notificazione o l’attuazione delle direttive (nel caso di specie, dal 29 gennaio 1982: data di entrata in vigore delle direttiva 82/76/CEE, coincidente con la data della sua notificazione), senza ovviamente neppure considerare i medici che avessero già conseguito il titolo in data anteriore, e riservava l’applicazione dell’ordinamento comunitario ai soli medici ammessi alle scuole di specializzazione dall’anno accademico 1991/1992.
Le direttive “riconoscimento” (75/362/CEE) e “coordinamento” (75/363/CEE), nonché la direttiva 82/76/CEE, che le riassume, sono state successivamente abrogate e sostituite dalla direttiva del Consiglio 93/16/CEE del 5 aprile 1993, intesa a codificare e a riunire in un testo unico per motivi di razionalità e per maggiore chiarezza le disposizioni delle direttive sopra ricordate, che erano state nel tempo modificate ripetutamente in modo sostanziale. Con l’occasione era apparso opportuno incorporare nel detto testo unico anche la direttiva 86/457/CEE del Consiglio del 15 settembre 1986 relativa alla formazione specifica in medicina generale. Nella direttiva in esame è ribadita la necessità di “rimunerazione adeguata” per la formazione sia a tempo pieno, sia a tempo ridotto dei medici specializzandi. Successivamente la disposizione recata dall’art. 8, comma secondo, del decreto legislativo 257 del 1991 era ritenuta in contrasto con la direttiva 82/76/CEE e, in sede di annullamento dei decreti ministeriali che davano attuazione a quanto disposto dall’art. 2 del decreto legislativo 257 del 1991, disapplicata dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con una serie di sentenze (tra le quali la sentenza 25 febbraio 1994 n. 279) nella parte in cui la norma escludeva dal doppio beneficio i medici ammessi alle scuole di specializzazione negli anni accademici anteriori al 1991/92 (retribuzione per la partecipazione al corso di formazione e autonoma valutazione del titolo conseguito con assegnazione di specifico punteggio da valere nelle procedure concorsuali).
La anzidetta pronuncia era fondata sul carattere di immediata applicabilità delle disposizioni comunitarie, che attribuiscono capacità generale al nuovo ordinamento delle specializzazioni mediche siccome normativa del tutto “incondizionata” tale da non lasciare allo Stato alcun margine di discrezionalità, come ha precisato la Corte Costituzionale nella sentenza 168 del 1991, nonché come normativa “sufficientemente precisa” atteso che il contenuto normativo, che si assume violato, è enunciato senza margini di incertezza. Nella sentenza era, inoltre, rilevata la sicura presenza dell’ulteriore presupposto (logico e implicito, dalla Corte italiana opportunamente sottolineato) della inadempienza dello Stato dopo essere decorso inutilmente il termine previsto per dare attuazione alla direttiva. E’ appena il caso di aggiungere che non tolgono nulla al carattere di normativa sufficientemente precisa e del tutto incondizionata i principi enunciati dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza 10 agosto 1996 n. 7410, dove ci si riferisce all’attività organizzativa, alla programmazione e gestione dei corsi di specializzazione, nonché alla determinazione del numero e della distribuzione dei corsi stessi e delle borse di studio da assegnare.
Le considerazioni svolte dal Supremo Consesso, che la Sezione condivide in misura piena, poggiano sull’ampia discrezionalità della pubblica amministrazione nelle attività anzidette, l’esistenza della quale attribuisce alla disciplina comunitaria valore di normativa destinata a essere recepita dagli Stati – membri (“Dalla direttiva 75/363/CEE, integrata dalla successiva 82/76/CEE discendono criteri e regole che, trasferiti nell’ordinamento italiano dalla legge 29 dicembre 1990 n. 428 e dal decreto legislativo 8 agosto 1991 n. 257, richiedono un’attività organizzatoria con largo margine di discrezionalità dell’amministrazione statale”). I suddetti principi sono nella sostanza ribaditi in due sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee (25 febbraio 1999 e 3 ottobre 2000) su procedimenti avviati nel 1997 (rispettivamente C-131/97e C-371/97). La Corte di giustizia ha premesso che l’obbligo imposto dalla direttiva 82/76/CEE di retribuire i periodi di formazione relativi alle specializzazioni mediche deve essere inteso come incondizionato e sufficientemente preciso solo se ci si muove nel preciso ambito di applicazione della direttiva medesima (punto 34 della sentenza 3 ottobre 2000). La Corte di giustizia ha quindi statuito che l’obbligo incondizionato e sufficientemente preciso di retribuire in misura adeguata il medico che segue il corso di formazione riguarda sia i periodi di formazione a tempo pieno (punto 1 dell’allegato alla direttiva 75/363/CEE, come modificato dalla direttiva 82/76/CEE), sia i periodi di formazione a tempo ridotto (punto 2 dell’allegato sopra citato), atteso che dalla lettera della direttiva “coordinamento” (76/363/CEE) e della direttiva 82/76/CEE si evince che la formazione a tempo ridotto deve anch’essa essere oggetto di una adeguata (e proporzionata) remunerazione (punto 42 sentenza citata). Inoltre, l’obbligo anzidetto si impone unicamente per le specializzazioni mediche comuni a tutti gli Stati membri ovvero a due o più di essi, le quali siano in ogni caso menzionate negli articoli 5 e 7 della direttiva 75/362/CEE.
E’ compito del giudice nazionale di accertare la sussistenza del detto presupposto, atteso che le direttive “riconoscimento” e “coordinamento” elencano chiaramente, per le formazioni specializzate considerate, tanto le denominazioni in vigore negli Stati – membri, quanto le autorità o gli enti competenti a rilasciare i diplomi, i certificati e gli altri titoli corrispondenti alle specializzazioni considerate (punto 28 della sentenza 3 ottobre 2000). Infine, l’obbligo incondizionato e sufficientemente preciso di retribuire in modo adeguato il medico che partecipa al corso di formazione sussiste solo se le condizioni di formazione a tempo pieno, ovvero quelle di formazione a tempo ridotto prescritte dalla direttiva 82/76/CEE siano rigorosamente “rispettate dai medici specialisti in formazione”.
All’opposto, le disposizioni della normativa comunitaria non sono incondizionate, né sufficientemente precise nella parte in cui non contengono alcuna indicazione riguardo all’identità dell’istituzione sulla quale incombe l’obbligo di pagamento dell’adeguata remunerazione, né riguardo a ciò che debba essere inteso come corrispondente a un’adeguata remunerazione oppure riguardo al metodo di determinazione di tale remunerazione (punto 47 della sentenza 25 febbraio 1999). Aggiunge peraltro il giudice comunitario che il giudice nazionale è tenuto, quando applica disposizioni di diritto nazionale precedenti o successive a una direttiva, a interpretarle quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva stessa.
In ultimo, la Corte di giustizia ha precisato che, nel caso in cui il risultato prescritto dalla direttiva “coordinamento” come modificata dalla direttiva 82/76/CEE, non potesse essere conseguito mediante l’interpretazione del giudice nazionale, il diritto comunitario impone alla Repubblica italiana di risarcire i danni cagionati ai singoli purché siano soddisfatte tre condizioni: che la norma violata abbia lo scopo di attribuire diritti soggettivi a favore dei singoli, il cui contenuto possa essere agevolmente identificato; che la violazione sia “sufficientemente grave” e che esista un nesso di causalità diretta tra la violazione dell’obbligo imposto allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi (punti 52 della sentenza 25 febbraio 1999). A tale proposito la stessa Corte di giustizia suggerisce di dare applicazione retroattiva e completa alle misure di attuazione della direttiva 82/76/CEE: questa soluzione consentirebbe di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione di tale direttiva da parte della Repubblica italiana e costituirebbe essa stessa misura di adeguato risarcimento del danno (a meno che i beneficiari non dimostrino l’esistenza di danni ulteriori da essi eventualmente subiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva e che dovrebbero quindi essere anch’essi risarciti) subordinatamente alla imprescindibile condizione che la “direttiva stessa, per questa parte, sia stata regolarmente recepita” (punto 53 della sentenza 25 febbraio 1999).
Da queste avvertenze discendono due conseguenze: la prima riguarda il deferimento al legislatore nazionale del compito di indicare l’ente debitore e, soprattutto, di adottare i criteri per la determinazione della “remunerazione adeguata” tanto in riferimento all’attività di formazione a tempo pieno, quanto all’attività di formazione a tempo ridotto; la seconda è relativa all’affidamento al prudente apprezzamento del giudice nazionale della soluzione di applicare la normativa comunitaria anche nel periodo in cui è mancata l’emanazione di norme specifiche da parte dello Stato italiano. Questo è possibile col disapplicare la nuova normativa nazionale (decreto legislativo 257 del 1991), che ha come destinatari i soli medici iscritti successivamente all’anno accademico 1991/92. A favore della tesi della non applicabilità della nuova normativa al periodo anteriore (fino alla emanazione della direttiva comunitaria 82/76/CEE) è la considerazione che ai medici in via di specializzazione iscritti prima dell’anno accademico 1991/92 non erano affatto richiesti l’impegno a tempo pieno e la correlativa promessa di non svolgere alcuna attività professionale retributiva. Nel frattempo entra in vigore la nuova disciplina in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati e altri titoli su delega conferita con legge “comunitaria” 24 aprile 1998 n. 128 (relativa agli anni 1995-97).
Con l’anzidetto provvedimento è anche data attuazione alla direttiva del Consiglio 93/16/CEE e alle sue modificazioni introdotte con le direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63CE e 99/46/CE. Il decreto legislativo in argomento, che abroga tutto il decreto legislativo 256 del 1991 e il decreto legislativo 257 del 1991 (con salvezza del solo art. 3, comma secondo), introduce una nuova regolamentazione della materia dei corsi di formazione (sia per i medici generici, che per i medici specialisti) e trasforma il rapporto dello specializzando da fruitore di borsa di studio a quello di medico in formazione, legato alle amministrazioni universitarie e regionali da uno specifico rapporto esclusivo che ha origine in un contratto di “formazione lavoro”. Lo stesso titolo di specializzazione, da “attestato di formazione”, diventa un vero e proprio “diploma di specializzazione”. Per definire i rapporti scaturiti dalle sentenze, passate in giudicato, del Tribunale amministrativo del Lazio interviene la legge 19 ottobre 1999 n. 370 che, all’art. 11, dispone la corresponsione per tutta la durata del corso di una borsa di studio annua onnicomprensiva di lire 13.000.000 (senza interessi e rivalutazione monetaria) a favore dei medici ammessi presso le università alle scuole di specializzazione in medicina dall’anno accademico 1983-84 all’anno accademico1990-91, che siano destinatari delle sentenze passate in giudicato del Tribunale amministrativo regionale del Lazio numero 601 del 1993 e numeri 279, 280, 281, 282 e 283 del 1994, subordinatamente all’accertamento da parte del Ministero dell’Università di determinate condizioni, tra le quali la circostanza che i beneficiari avessero seguito il corso con impegno a tempo pieno e che, per tutta la sua durata, non avessero svolto alcuna attività libero-professionale retribuita.
Le modalità concrete di attuazione della anzidetta disposizione sono state impartite con decreto ministeriale del 14 febbraio 2000, che subordina il soddisfacimento degli eventi diritto (destinatari delle sentenze del Tribunale amministrativo regionale) alla presentazione, a pena di decadenza, di una apposita domanda nella quale sia indicato il possesso dei requisiti prescritti dall’art. 11 della legge 370 del 1999.

2. E’ in questo quadro normativo e giurisprudenziale che si colloca la controversia ora in esame. I ricorrenti sono medici che hanno partecipato ai corsi di formazione conformi alla normativa recata dal d.P.R. 10 marzo 1982 n. 162 e hanno conseguito il titolo nelle relative specializzazioni nell’arco di tempo tra l’anno accademico 1983-84 e l’anno accademico 1990-91.
In particolare, essi assumono di avere gli stessi requisiti posseduti dai destinatari delle sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio sopra ricordate (numero 601 del 1993 e numeri 279, 280, 281, 282 e 283 del 1994). Con una serie articolata di motivi di gravame e l’uso dei più varii strumenti processuali essi reclamano l’applicazione nei loro confronti della nuova disciplina dettata alla normativa comunitaria per i corsi di specializzazione, con retribuzione per l’intera durata legale del corso e con assegnazione ai titoli di specializzazione conseguiti di uno specifico punteggio da spendere nelle procedure concorsuali. La normativa anzidetta, in quanto contenente disposizioni incondizionate e sufficientemente precise, sarebbe immediatamente applicabile e comporterebbe il superamento della normativa nazionale (legge 29 dicembre 1990 n. 428 e decreto legislativo 8 agosto 1991 n. 257), che prevede invece il doppio beneficio (assegnazione di borsa di studio e riconoscimento di autonomo punteggio al titolo di specializzazione) solo a decorrere dall’anno accademico 1991-92, con esclusione dei medici ammessi alla frequenza dei corsi negli anni accademici precedenti o che erano in via di svolgimento al momento di operatività della normativa comunitaria. Alcuni ricorrenti prospettano, infine, la incostituzionalità del decreto legislativo 8 agosto 1991 n. 257 nella parte in cui esclude il diritto a una adeguata remunerazione dei medici che abbiano frequentato i corsi di specializzazione negli anni precedenti l’anno accademico 1991-92 per violazione degli articoli 3, 10 comma primo, 36 e 91 della Costituzione.

3. Sono evidentemente da sciogliere prima le questioni in rito. Con riferimento ai ricorrenti che hanno dapprima diffidato le amministrazioni intimate a corrispondere loro la remunerazione prescritta dalla normativa comunitaria in corrispettivo delle attività svolte nell’ambito della formazione professionale e successivamente impugnato il silenzio-rifiuto che si sarebbe formato sulle loro istanze il Collegio osserva quanto scritto qui di seguito. Il Collegio può prescindere dall’accertamento della ritualità del procedimento seguito dai ricorrenti per la formazione del silenzio-rifiuto impugnabile in sede giurisdizionale: questo indipendentemente dalla tesi preferita se dopo la legge 7 agosto 1990 n. 241 persista ancora o meno l’onere di proporre un atto stragiudiziale di diffida e messa in mora ai sensi dell’art. 25 del T.U. 10 gennaio 1957 n. 3. Il ricorso è, difatti, manifestamente inammissibile. E’ il caso di ricordare che l’apprezzamento in termini giuridici del comportamento omissivo tenuto dalla pubblica amministrazione in presenza di una istanza del privato intesa a ottenere, allo scopo di soddisfare un interesse “pretensivo” giuridicamente protetto, l’emanazione di un provvedimento discrezionale a proprio favore (provvedimento discrezionale nel contenuto, ma vincolato da una norma positiva quanto alla sua adozione) ha origine (inizialmente pretoria) dalla esigenza di risolvere non tanto i (pochi) casi di consapevole scelta della pubblica amministrazione (“neppure ti rispondo tanto è infondata la tua richiesta”), quanto i (predominanti) casi di disinteresse della pubblica amministrazione alle istanze del cittadino, indipendentemente dalla loro infondatezza.
Tale era il livello di scorrettezza amministrativa che il legislatore è dovuto intervenire con la legge 241 del 1990 per canonizzare gli obblighi di comportamento della amministrazione pubblica dinnanzi alle richieste del cittadino, al cui servizio è istituzionalmente preposta l’amministrazione medesima (e non viceversa). Peraltro numerose perplessità erano sorte, specie in giurisprudenza, relativamente ai poteri che il giudice amministrativo dispone di fronte a impugnative di siffatto genere. Ed invero, alla tesi che, in sede di accertamento del silenzio serbato dall’amministrazione, il giudice adito deve limitare il proprio sindacato al controllo della legittimità o meno dell’inerzia opposta alla richiesta del privato, se ne contrappone l’altra che riconosce al giudice il dovere di spingersi ad apprezzare la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere in via di azione e, quindi, indicare puntualmente, nel caso di accoglimento del ricorso, i contenuti vincolanti della successiva attività dell’amministrazione medesima. La situazione ha di recente indotto la Sezione VI del Consiglio di Stato, con ordinanza 10 luglio 2001 n. 3803, a definire la questione in via preventiva all’Adunanza plenaria, “onde evitare possibili contrasti giurisprudenziali e in relazione all’importanza della questione di carattere generale” (questa è la rilevante originalità della pronuncia). L’ordinanza anzidetta ha fondamento sulla considerazione che la ristrettezza dei termini previsti dall’art. 2 della legge 21 luglio 2000 n. 205 per siffatto procedimento speciale (termine abbreviato di impugnazione; fissazione in tempi brevi della camera di consiglio nella quale il ricorso andrà deciso con “sentenza succintamente motivata”; stesse regole per l’appello) verrebbe a ledere i diritti della difesa, l’integrità del contraddittorio e la completezza dell’istruttoria laddove, in luogo di limitare il giudizio all’accertamento dell’obbligo di provvedere, si chiede al giudice adito di estendere la cognizione all’accertamento della pretesa sostanziale. In tali casi, infatti, si chiede di affrontare questioni anche particolarmente complesse o relative ad attività amministrativa caratterizzata da rilevanti profili di discrezionalità in tempi estremamente ridotti e in un procedimento che si definisce nella sede camerale con una impostazione che si avvicina alquanto al rito speciale introdotto dall’art. 9 della legge 205 del 2000. Questa disposizione, che sostituisce l’ultimo comma dell’art. 26 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 è fondata, come è noto, sulla percezione immediata da parte del giudice della manifesta infondatezza ovvero della manifesta fondatezza del ricorso: circostanze, queste, che potrebbero bene non esserci nell'accertamento della pretesa sostanziale fatta valere nel ricorso avverso il silenzio-rifiuto.
Con la decisione 9 gennaio 2002 n. 1 l’Adunanza Plenaria si è espressa a favore della prima tesi osservando che il giudizio sul silenzio-rifiuto non deve consentire al Giudice amministrativo di spingersi a stabilire il contenuto concreto del provvedimento che l’Amministrazione avrebbe dovuto emanare a seguito dell’istanza del privato. Il tenore dell’art. 2 della L. n. 205 del 2000 avvalora la tesi che l’organo competente in via ordinaria conservi, pur dopo la sentenza e fino all’insediamento del commissario, il potere di provvedere in senso pieno. Il processo sul silenzio-rifiuto è, pertanto, diretto solo a indurre l’Amministrazione a esprimersi sollecitamente sull’istanza del privato. Solo attraverso il proprio commissario, in caso di perdurante inerzia, il giudice amministrativo si sostituisce all’Amministrazione inadempiente con l’esercizio sostitutivo, e però completo delle potestà amministrative. Per tornare al tema sul quale verte la controversia è da osservare che, nel caso di specie, non viene in rilievo l’utilità del procedimento sul silenzio-rifiuto, introdotto dall’art. 2 della legge 205 del 2000, al quale i ricorrenti hanno indubbiamente fatto ricorso (tanto da ottenere la sollecita fissazione della camera di consiglio per la trattazione del merito del gravame), bensì l’utilizzabilità del procedimento. Ed invero, i ricorrenti chiedono con lo strumento del silenzio-rifiuto l’accertamento del loro preteso diritto patrimoniale perfetto a percepire una adeguata remunerazione come corrispettivo per l’attività (già) svolta nell’ambito della loro formazione professionale.
Essi superano l’ostacolo costituito dall’art. 11 della legge 19 ottobre 1999 n. 370 e del conseguente decreto ministeriale 14 febbraio 2000 di attuazione chiedendo, da un lato la disapplicazione della prima e l’annullamento del secondo, dall’altro l’estensione nei loro confronti delle pronunce del Tribunale amministrativo del Lazio del 1993 e del 1994. La prima richiesta si fonda sul preteso contrasto con la disciplina comunitaria, che ha forza propria di imporsi nell’ordinamento interno in quanto recherebbe disposizioni del tutto incondizionate e sufficientemente precise: pertanto, immediatamente e direttamente precettive. La seconda richiesta è per evitare che si determini una disparità di trattamento tra medici specializzandi a motivo della ingiustificata limitazione temporale ai benefici economici delle borse di studio e a quelli giuridici del valore autonomo della specializzazione conseguita, con l’attribuzione di uno specifico punteggio da spendere nelle procedure di concorso. I ricorrenti superano pure l’ostacolo rappresentato da quella parte della normativa comunitaria (direttiva 82/76/CEE) priva dei caratteri della incondizionatezza e precisione: cioè la parte che deferisce alla autorità nazionale la individuazione della istituzione sulla quale incombe l’obbligo di pagamento della “adeguata remunerazione” e il criterio della sua determinazione.
L’ostacolo è superato con ricorso allo stesso art. 11 della legge 19 ottobre 1999 n. 370, che ha posto il pagamento a carico della amministrazione intimata in questo giudizio (l’attuale Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca) e riconosciuto nella misura onnicomprensiva di lire 13.000.000 annui (ora euro 6.713,94 annui), per tutta la durata legale del corso seguito, la somma da corrispondere ai medici ammessi alla frequenza delle scuole di specializzazione in medicina a partire dall’anno accademico 1983/84 fino a quello del 1990/91. Solo in via subordinata i ricorrenti chiedono la determinazione della entità della somma nel corso del giudizio ovvero, in via ancora subordinata, la liquidazione equitativa dei danni da loro subiti per il ritardo con il quale lo Stato italiano nel 1991 ha recepito la direttiva 82/76/CEE, che aveva avuto effetto dal 1983. Altri ricorrenti chiedono, invece, la somma all’epoca determinata dall’art. 6 del decreto legislativo 8 agosto 1991 n. 257 (in attuazione della direttiva 82/76/CEE) in lire 21.500.000 (ora euro 11.103,82), incrementata annualmente dal tasso programmato di inflazione determinato dai decreti ministeriali ogni triennio. 4. Osserva il Collegio che i ricorrenti, nella sostanza delle cose, promuovono una azione che ha per oggetto una pretesa patrimoniale diretta, già predeterminata in tutti i suoi elementi o, quanto meno, facilmente determinabile nel corso del giudizio in via diretta ovvero per equivalente. L’azione è, pertanto, incontestabilmente prospettata come rivolta all’accertamento di un comportamento di inadempimento a un obbligo patrimoniale imposto dall’ordinamento ed è diretta a ottenere una pronuncia di condanna dell’amministrazione intimata al pagamento di una somma di denaro determinata (ovvero determinabile in via diretta o per equivalente).
A siffatto risultato non può condurre il procedimento speciale di annullamento del silenzio-rifiuto ai sensi dell’art. 2 della legge 205 del 2000 (più correttamente: la intrapresa azione di accertamento dell’inadempimento all’obbligo di pronuncia esplicita sulla istanza del privato diretta al soddisfacimento di un interesse pretensivo a opera di una attività discrezionale della pubblica amministrazione). Nel detto procedimento il giudice amministrativo esercita, difatti i poteri propri della giurisdizione di legittimità. Invece, nei casi di giurisdizione esclusiva, per giungere alla condanna dell’Amministrazione, le pretese patrimoniali che hanno fondamento in una precisa disposizione normativa, senza necessità di intermediazione di ulteriori provvedimenti dell’amministrazione, devono passare attraverso un giudizio ordinario diretto ad accertare, prima di tutto, la reale consistenza della posizione giuridica vantata, la titolarità della stessa e, in ultimo, la sussistenza dell’inadempimento dell’amministrazione, tenuta a soddisfare in via diretta e immediata la pretesa. D’altra parte, che nel caso di specie si tratti di giurisdizione esclusiva è confermato dall’art. 7 della legge 205 del 2000, che modifica l’art. 33 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80.
Ed infatti, la formazione del medico europeo è da qualificare come servizio pubblico in quanto consiste in attività di istruzione svolta dalla pubblica amministrazione per fornire ai partecipanti una utilità di carattere strumentale, da spendere nell'esercizio della professione in qualunque luogo dell’Unione. Il nuovo e accelerato strumento di tutela offerto dal procedimento speciale introdotto per i ricorsi avverso il silenzio della amministrazione, attraverso il quale, con i tempi tecnici propri di una misura cautelare, si giunge alla sola declaratoria dell’obbligo di provvedere (secondo la tesi che anche la Sezione ha costantemente mostrato di prediligere), non può valere per ottenere in modo anticipato una delibazione del merito della controversia, che appare invece riservato al normale giudizio di cognizione. D’altra parte, se questo fosse in ipotesi consentito, l’azione del privato finirebbe per essere diretta a ottenere dalla amministrazione una pronuncia espressa su un suo inadempimento relativo a una prestazione patrimoniale che è a suo carico per obbligo di legge: con questo si imporrebbe all’amministrazione, in ultimo attraverso un commissario del giudice, di riconoscere un proprio debito saltando tutta la fase cognitoria di accertamento.

5. Per mera completezza del discorso è utile ricordare che, al di fuori dei casi in cui le direttive comunitarie rimaste inattuale dopo la scadenza del termine assegnato allo Stato-membro e che contengono disposizioni incondizionate e sufficientemente precise si trasfondono immediatamente nell’ordinamento interno e non consentono l’applicazione delle norme interne confliggenti (Cass. Civ., Sez. lavoro, 18 maggio 1999 n. 4817; Corte di giustizia delle Comunità europee, Sez. V. 29 maggio 1997 n. 389; Cons. Stato,. Sez. III, 18 novembre 1997 n. 1472), le direttive comunitarie prive dei requisiti sopra descritti hanno carattere vincolante per le finalità perseguite, ma lasciano liberi gli Stati nella scelta delle modalità di realizzazione di dette finalità, e, per il loro carattere strumentale, non si trasfondono negli ordinamenti nazionali, avendo gli Stati come unici destinatari delle loro disposizioni; né i singoli possono invocarne la immediata applicazione, trattandosi di atti i cui effetti giuridici sono normalmente subordinati all’emanazione di un atto di esecuzione interna (T.A.R. Puglia, Sede Sez. II, 15 novembre 1996, n. 735). L’allegato aggiunto alla direttiva 75/363/CEE dall’art. 13 della direttiva 82/76/CEE, ora trasfuse nella direttiva 93/16/CEE, nel disciplinare le caratteristiche della formazione a tempo pieno e ridotto dei medici specialisti, ha prescritto che essa, comportando la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua la formazione, comprese le guardie, implica che le sia dedicata tutta l’attività professionale per l’intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell’anno “secondo le modalità fissate dalle autorità competenti”. Pertanto, solo tale formazione è considerata suscettibile di una adeguata rimunerazione, dove mancano atti di esecuzione interna che riconoscano la retribuibilità anche dei corsi non conformi alla normativa comunitaria.
Nel caso di specie risulta chiaro che le direttive comunitarie in argomento tendono in via principale e diretta a garantire una formazione specialistica medica uniforme e adeguata (perseguibile mediante la frequenza, remunerata, di corsi a tempo pieno) nell’ambito di tutti gli Stati membri della Comunità europea, con fissazione di requisiti minimi vincolanti detti Stati per quanto riguarda il detto risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali con riguardo alla forma ed ai mezzi necessari per raggiungere il risultato medesimo. Il riconoscimento di emolumenti in favore dei medici frequentanti i corsi di specializzazione, poiché sottoposto da dette direttive a determinate condizioni (inerenti alla esclusività delle prestazioni nel corso degli stessi e che non necessariamente venivano già rispettate dagli Enti preposti alla loro organizzazione) volte a garantire principalmente la loro quanto migliore preparazione, assume quindi carattere incondizionato e sufficientemente preciso con riguardo alla retribuibilità, in astratto, dei corsi che si sono svolti nel rispetto delle condizioni previste, ed è invece indiretto e strumentale, rispetto all’obiettivo principale fissato dalle direttive in questione (il conseguimento di adeguata e uniforme formazione professionale), con conseguente libertà (per gli Stati-membri), con riguardo a tale aspetto, di decidere autonomamente sulla retribuibilità dei corsi di specializzazione che – pur svolti nel rispetto della normativa di cui al d.P.R. 10 marzo 1982, n. 162 (che prevede all’art. 11, solo la obbligatorietà della frequenza di detti corsi) e che si sono conclusi con il rilascio del diploma ai partecipanti – non abbiano previsto anche il rispetto delle caratteristiche della formazione dei medici specialisti prescritte dall’allegato aggiunto alla direttiva 75/263/CEE, prima citata.
Non può quindi ritenersi che le direttive comunitarie in argomento (in particolare con riguardo alla retribuibilità di corsi che i ricorrenti non dimostrano che si siano svolti nel rispetto di tutte le condizioni poste dalle direttive stesse) contenessero disposizioni (si ribadisce, solo con riguardo alle posizioni esulanti dallo standard previsto) incondizionate e sufficientemente precise immediatamente applicabili nell’ordinamento interno e inibenti l’applicazione delle norme interne confliggenti. E’ il caso di ribadire che esse avevano, quindi, carattere vincolante nella parte riguardante le finalità perseguite e, nella restante parte, solo alle condizioni stabilite, lasciando liberi gli Stati nella scelta delle modalità di realizzazione delle finalità stesse in caso di mancato rispetto delle condizioni stesse. Ed invero, le direttive, che hanno gli Stati come unici destinatari delle loro disposizioni, per il loro carattere strumentale non sono destinate in questa parte a trasfondersi nel nostro ordinamento nazionale. I singoli non possono, pertanto, invocare la immediata applicazione della normativa che riconosce la retribuibilità della frequenza dei corsi in questione, trattandosi di disposizioni i cui effetti giuridici sono, in assenza di dimostrazione del rispetto, nella loro organizzazione, delle condizioni prescritte dalle direttive CEE, subordinati all’emanazione di atti di esecuzione interna (Cons. St., Sez. VI, 15 dicembre 1999, n. 2090).
Il beneficio invocato dai ricorrenti non può quindi derivare direttamente dalla normativa comunitaria perché questa, recepita solo dall’anno accademico 1991/1992, lascia, per quanto in precedenza asserito, sopravvivere disposizioni già vigenti nel periodo ad esso precedente per corsi di specializzazione già iniziati, con riguardo alla concreta retribuibilità dei specializzandi che hanno frequentato i corsi non dimostratamene rispettosi delle condizioni espressamente previste dalla citata normativa comunitaria. Deve essere, inoltre, ulteriormente rilevato che l’art. 12 della direttiva 82/76/CEE, che prevede, in via transitoria, che le disposizioni che stabiliscono una formazione specializzata a tempo ridotto (non retribuita) possano continuare ad essere applicate ai candidati che abbiano iniziato la loro formazione di medici specialistici al più tardi il 31 dicembre 1983, non può essere interpretato, ad avviso del Collegio, nel senso che (Cons. St., Sez. IV, 10 agosto 2000 n. 4442) la disposizione sia dettata nell’interesse e a richiesta dei candidati; esso, viceversa, deve essere inteso nel senso che sia posto a diretta tutela della esigenza di garantire una completa preparazione dei candidati mediante la frequenza a tempo pieno e solo in via indiretta e mediata a tutela della esigenza di sopperire, con una sovvenzione adeguata, alle necessità materiali per l’impegno dei partecipanti a dedicarsi a tempo pieno, nell’interesse pubblico, all’attività rivolta alla loro specializzazione.
Deve essere, pertanto, riconosciuta alla amministrazione non solo una ampia potestà discrezionale nella organizzazione dei corsi di formazione, ma anche nella determinazione di precise condizioni per la loro retribuibilità con riferimento alla esclusività dell’impegno richiesto ai partecipanti, nonché nella fissazione di un limite temporale di attuazione delle direttive in argomento nella parte in cui affermano il principio della retribuibilità dei corsi, tenuto anche conto dei conseguenti oneri finanziari. Pertanto, neppure detta norma (art. 12 della direttiva 82/76/CEE) appare incondizionata e tanto precisa da poter essere recepita nel nostro ordinamento senza necessità di atti applicativi e comportare il diritto di tutti i medici che hanno frequentato i corsi di specializzazione in questione prima dell’anno accademico 1991/92 a conseguire i correlati emolumenti. Se, infatti, l’obbligo di retribuzione in maniera adeguata è stato riconosciuto dalla Corte di Giustizia incondizionato e preciso nella parte riguardante il diritto che la formazione sia retribuita, tanto non può affermarsi con riguardo alla retribuzione pretesa da coloro che, come parte ricorrente, abbiano frequentato i corsi di specializzazione prima dell’anno accademico 1991/92 senza dare prova che essi fossero perfettamente conformi alle disposizioni contenute nel ridetto allegato. La riconosciuta discrezionalità in materia della Amministrazione e la insussistenza di un obbligo giuridico, in virtù del diritto comunitario, di attuazione retroattiva delle direttive in questione con riguardo alla pretesa fatta valere in giudizio, escludono la possibilità di estendere il giudicato derivato dalle sentenze alle quali si riferisce la legge 19 ottobre 19991 n. 370 anche ai non ricorrenti. E’ noto, infatti, che in materia di estensione del giudicato la pubblica amministrazione gode di ampia discrezionalità.
Non può essere, pertanto, condivisa la censura di omessa estensione del giudicato derivante dalle anzidette sentenze: l’operazione non costituisce un obbligo per l’amministrazione, al quale corrisponda un diritto del privato azionabile in sede di giudizio di legittimità (Cons. Stato, Sez. VI, 29 settembre 1998 n. 1317). Le considerazioni in precedenza svolte impediscono anche di apprezzare positivamente la dedotta illegittimità della condizione apposta alle impugnate disposizioni che subordinano la retribuibilità dei corsi al mancato svolgimento di qualsiasi attività professionale retribuita durante la loro frequenza. Ed invero, la tardiva attuazione delle direttive comunitarie in materia ha comportato la mancata imposizione ai medici che hanno frequentato i corsi di specializzazione prima dell’anno accademico 1991/92 di tutte le limitazioni e le incompatibilità introdotte con il decreto legislativo 257 del 1991, di attuazione delle anzidette direttive. Si sono, pertanto, venute a determinare situazioni non comparabili tra loro perché non è stato precluso, ai medici non soggetti al regime del decreto legislativo 257 del 1991, di portare a termine i corsi con la possibilità (non importa se in concreto utilizzata) di esercitare attività libero – professionale ovvero di avere rapporti di lavoro compatibili con la frequenza dei corsi. Costoro, pertanto, non possono rivendicare lo stesso trattamento riservato ai borsisti ammessi sulla base di un differente regime giuridico introdotto dal decreto legislativo 257 del 1999, ai quali sono stati riconosciuti emolumenti (allo scopo di consentirne la sopravvivenza) proprio a seguito del divieto loro imposto di svolgere qualsiasi attività ulteriore alla frequenza dei corsi di specializzazione (Cons. St., Sez. VI, 15 dicembre 1999, n. 2090).
Né possono essere condivise le censure mosse contro il decreto ministeriale 14 febbraio 2000, pubblicato sulla G.U. 27 marzo 2000 n. 72, col quale a seguito dell’art. 11 della legge 370 del 1999, l’amministrazione ha sostanzialmente negato il soddisfacimento della pretesa in questa sede azionata. L’anzidetto provvedimento non è stato, difatti, impugnato nei termini di decadenza pur essendo dalla data della sua pubblicazione direttamente e immediatamente lesivo. Da siffatta situazione discende l’insussistenza dell’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi nuovamente sulla richiesta già sostanzialmente negata (Cons. Stato, Sez. II, 17 aprile 1996 n. 772). Deve essere ancora osservato che, in mancanza di prova sul rispetto di tutte le condizioni prescritte dalla normativa comunitaria, che avrebbero dovuto avere i corsi di specializzazione seguiti dai medici ricorrenti in epoca anteriore all’anno accademico 1991/92 e in assenza di una normativa interna che riconosca la retribuibilità anche dei corsi non conformi alle disposizioni comunitarie, appare priva di manifesto fondamento la eccezione di incostituzionalità del decreto legislativo 257 del 1991 prospettata dai ricorrenti senza argomenti minimamente convincenti. Sono, inoltre, da considerare due eccezioni che traggono fondamento dalla prospettazione dei ricorrenti di avere diritto alla sovvenzione per i corsi seguiti con successo, che si sono conclusi con l’acquisizione del titolo di specializzazione.
La prima è opposta dalla amministrazione resistente. Ed invero, in difetto di precedenti atti interruttivi, il diritto a percepire somme sostitutive dell’adeguata remunerazione prevista dalle direttive comunitarie, così come quello al risarcimento del danno, si sono prescritti con il decorso di un quinquennio, trattandosi di somme da corrispondersi ad anno ai sensi dell’art. 2948 n. 4 c.c. (TAR del Lazio, sentenze 640 del 1999 e 6691 del 2001) a decorrere dall’epoca in cui i diritti in questione avrebbero dovuto essere fatti valere (Cass. Civ., Sez. lav., 3 giugno 2000, n. 7437), cioè dalla data di assunta maturazione del diritto, coincidente con la conclusione di ciascun anno accademico in cui la parte ha frequentato il corso di specializzazione o, al più tardi, dalla data in cui esso diritto è stato sostanzialmente negato, coincidente con quella di emanazione del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257, di attuazione della direttiva 82/76CEE con decorrenza solo dall’anno accademico 1991/1992 (vale a dire ottobre 1991). Gli stessi termini possono essere considerati rilevanti ai fini del richiesto risarcimento dei danni, peraltro non provati né nella loro sussistenza né nella entità. La seconda, rilevata d’ufficio, riguarda la prescrizione della stessa azione promossa in ricorso. Ed invero, il diritto di azione, che è subordinato all’esercizio entro il termine di 60 giorni dalla notifica o dalla conoscenza dell’atto autoritativo, è soggetto al termine di prescrizione quando si tratti di rapporti non connessi all’emanazione di un atto del carattere anzidetto.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha avuto occasione di affermare che la tutela dei diritti soggettivi a contenuto patrimoniale (quali sono quelli prospettati in ricorso) è esperibile nell’ambito della giurisdizione esclusiva fino a che tali diritti non siano estinti per prescrizione, indipendentemente dalla impugnativa nei termini di legge di atti amministrativi non autoritativi aventi a oggetto quei diritti. Pertanto, il ricorso può essere proposto finché non sia scaduto il termine di prescrizione. (Cons. Stato, VI, 10 luglio 1957 n. 511). Dopo quanto detto perdono rilievo le richieste di investire della questione la Corte Costituzionale sulla pretesa illegittimità dell’art. 11 della legge 370 del 1999, nonché del decreto ministeriale 14 febbraio 2000 in relazione agli articoli 3, 10, 11, 35 e 97 della Costituzione. A prescindere dalla circostanza che la questione di incostituzionalità non potrebbe investire il decreto ministeriale, si osserva che, al contrario, proprio l’accoglimento della domanda dei ricorrenti introdurrebbe una insopportabile disparità di trattamento tra questi ultimi e i medici ammessi al corso col nuovo ordinamento, soggetti a restrizioni non previste per i medici ammessi col vecchio ordinamento. Anche con i medici beneficiari delle sentenze del TAR del Lazio si creerebbe disparità di trattamento in conseguenza del congelamento degli interessi e rivalutazione monetaria operato dalla legge 370 del 1999, al quale non sarebbero in ipotesi soggetti i ricorrenti di oggi. Le considerazioni che precedono comportano, per la prevalenza del profilo, la declaratoria di inammissibilità del ricorso in esame. Atteso che solo da ultimo la sezione, con sentenza 25 gennaio 2001 n. 689, ha superato i precedenti orientamenti che oscillavano tra le opposte tesi, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese del giudizio.
P. Q. M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – Sezione III bis –dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Così deciso in Roma, dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione III bis, nella camera di consiglio del 20 maggio 2002 con l’intervento dei Signori magistrati elencati in epigrafe. Consigliere Roberto SCOGNAMIGLIO Presidente Consigliere Vito CARELLA Estensore – relatore.


Daniele Zamperini (Sentenza TAR Lazio n. 5927/02)



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