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Una svolta della Cassazione penale: commento a sentenza
Inserito il 30 gennaio 2002 da admin. - medicina_legale - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Il nesso di causalità materiale nelle condotte mediche omissive deve essere accertato con probabilità vicina alla certezza.


1. La sentenza n. 1688/2000 pronunciata il 28 settembre 2000 dalla sezione IV della Cassazione appare come un passaggio auspicabilmente decisivo nel diritto vivente di questi ultimi anni, sia rispetto al grave problema della responsabilità penale dei medici, sia sotto il generale profilo del nesso causale nelle condotte omissive.
La Corte Suprema, a partire dal 1990, si era già pronunciata in numerose importanti sentenze in favore del contemperamento del regime condizionalistico, che sta alla base del nostro ordinamento, con criteri desumibili dalla dottrina della sussunzione sotto leggi scientifiche elaborata nel 1931 in Germania da Karl Engisch ed importata in Italia, con adattamenti ed ampiezza di argomentazioni e di approfondimenti, dal penalista Federico Stella. Ma tali sentenze, ci sembra, sono rimaste relativamente in ombra, oscurate, in ambito di responsabilità medica, da un orientamento di segno opposto, molto pubblicizzato nei mass media. Nello stesso decennio, infatti, è stata ampiamente pubblicizzata, ed ha esercitato un notevole effetto sui giudizi di merito, la non condivisibile sentenza n. 371/1992, detta anche del 30%.
La sentenza qui commentata - il cui estensore è stato, non a caso, il giudice Battisti che ha dato inizio nel 1990 a tale orientamento - imprime un confortante nuovo impulso a questo indirizzo applicandolo alla responsabilità professionale dei medici. La sua importanza si deve attribuire anche all'ulteriore approfondimento delle motivazioni - che si avvalgono anche di citazioni di parti della Relazione della Commissione Grosso per la riforma del codice penale, istituita con D. M. 1 ottobre 1998, che ha dedicato gli articoli 13 e 14 del Progetto al ‘rapporto di causalità’ - circa l’utilizzo della dottrina della sussunzione sotto leggi scientifiche al fine di accertare il nesso causale.
Il commento che di questa sentenza proponiamo è per ora concentrato su alcune considerazioni relative alla nozione scientifica di probabilità e sulla criteriologia medico-legale in tema di nesso causale: argomento, quest’ultimo, cui abbiamo dedicato recentemente un’analisi metodologica. La lettura dell’intero testo della sentenza è infatti ben più eloquente di quanto non possa risultarne un riassunto e una rielaborazione sia pure al fine di approvarne le conclusioni. Tali sono la chiarezza e l’ampiezza di convincenti e coerenti motivazioni giuridiche da produrre non soltanto la condivisione (pur associata ad alcune indispensabili precisazioni criteriologiche medico-legali), bensì anche il sentimento di viva - benché quasi incredula - speranza che questo giro di boa, ispirato a principi inderogabili, riporti finalmente il diritto vivente fuori dalle sabbie mobili in cui un recente passato più volte l’ha fatto smarrire, perlomeno in alcuni centrali settori. Tra questi figura in prima fila la responsabilità professionale del medico, che ha conosciuto le traversie più inquietanti fino a produrre assurde imputazioni e condanne per omicidio preterintenzionale: un tema, quest’ultimo, che investe i fondamenti della liceità della professione medica, sul quale la Cassazione è pure intervenuta di recente con la sentenza della sezione IV penale n. 585 pronunciata il 9 marzo 2001 (ricorrente: Barese), altro interessante segno di un mutamento di clima, la quale verrà prossimamente pubblicata e commentata su questa Rivista.

2. Il caso, riassunto come di consueto nella prima parte della sentenza in epigrafe, è di frequente osservazione nella pratica medico legale in tema di responsabilità medica, riguardando il mancato ricovero di pazienti giunti al Pronto Soccorso con sintomi inscritti in storie di patologia cronica, ovvero con sintomi nuovi ma privi di riscontri oggettivi clinici e strumentali: conseguendone il rinvio a domicilio seguito tuttavia, poche ore dopo, da un cospicuo aggravamento, talora dalla morte. In queste evenienze manca di frequente la dimostrazione che, a fronte della scarsa disponibilità di posti letto e nel contempo in presenza di sintomi ambigui, o di scarso rilievo, sia da considerarsi colposa la condotta del medico di Pronto Soccorso su cui incombe un ruolo difficile, ed anche sgradevole, di selezione tra i malati che hanno reale bisogno di ricovero e quelli che non sembrano averne necessità urgente.
Le difficoltà diagnostiche differenziali, e soprattutto prognostiche, sono purtroppo la causa di rinvii al domicilio nell’ambito dei quali un numero per fortuna ridotto di casi presenta l’evoluzione sfavorevole cui abbiamo fatto cenno e che ha connotato il caso su cui la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sotto il profilo della legittimità. La casistica è in proposito abbastanza ampia ed è costituita prevalentemente, ma non esclusivamente, da patologie cardiovascolari nel caso di soggetti adulti (anche le ambigue urgenze chirurgiche hanno una loro rappresentanza), mentre nella patologia pediatrica figurano spesso le malattie infettive acute. Non solo il carattere colposo di queste condotte è spesso opinabile, ma ancor più frequentemente lo è il nesso causale tra condotta ed esito sfavorevole del trattamento medico-chirurgico.

3. La sentenza n.1688/2000 è auspicabile possa costituire una svolta, in tema di responsabilità medica, segnando anche (ma non soltanto) l’atteso ritorno al rispetto del principio di eguaglianza davanti alla legge, costituzionalmente garantito (art. 3 Cost.), per una categoria di cittadini, i medici, per i quali un diritto vivente, sempre più differenziato a loro sfavore, ha squilibrato il suddetto principio in misura ormai inaccettabile.

Alludiamo al criterio di accertamento del nesso causale tra le condotte omissive dei sanitari e gli eventi di danno, lesioni e/o morte, che nell’ultimo ventennio, a causa di due sentenze - una poco nota del 12 maggio 1983 n. 4320, l'altra la notissima e per di più in parte equivocata n. 371 del 17 gennaio 1992 (detta sbrigativamente "del 30%") - ha subito una distorsione a carattere ingiustificatamente discriminatorio nei confronti degli esercenti l'attività medico-chirurgica.
Nella prima delle due sentenze si è affermato che "al criterio della certezza degli effetti si può sostituire quello della probabilità di tali effetti (e della idoneità della condotta a produrli) quando è in gioco la vita umana". Affermazione che in linea di massima si può accettare se la Corte non ne avesse aggiunto un'altra che contraddice gravemente il principio di "probabilità". Affermava infatti la Corte che sono "sufficienti anche solo poche probabilità di successo di un immediato o sollecito intervento chirurgico, sussistendo, in difetto, il nesso di causalità qualora siffatto intervento non sia stato possibile a causa dell'incuria del sanitario che ha visitato il paziente".
La sentenza n. 371 pronunciata dalla Cassazione nel luglio del 1991, e pubblicata il 17 gennaio 1992, ha a sua volta clamorosamente affermato che basta il 30% di probabilità di successo della omessa prestazione per riconoscere la sussistenza del nesso causale.
Le altre sentenze in tema di responsabilità medica pronunciate dalla Corte in questo lungo periodo hanno più volte confermato la legittimità di fare ricorso al "criterio di probabilità" (cfr. ad esempio Cass. 22 febbraio 1993 n. 1594), ma hanno preteso che tale probabilità sia "seria ed apprezzabile" (Cass. 10 luglio 1987 n. 8290, che quantifica nel 70/80% la "probabilità di esito favorevole" richiesta; Cass. 12 maggio 1989 n. 7118; Cass. 5 giugno 1990 n. 8148 della IV sezione penale; Cass. 10 agosto 1990 n. 11389; Cass. 16 agosto 1990 n. 11484; Cass. 23 novembre 1990 n. 15565).
Con la sentenza 16 novembre 1993 n. 10437 - di appena un anno successiva alla 371/1992 - la Cassazione penale aveva richiesto invece "un sufficiente grado di certezza", in tal modo collocandosi di fatto sul binario delle sentenze citate nella nota n.1 ed anticipando la sentenza in epigrafe.
Vale a questo punto la pena di ricordare una esemplare massima contenuta in una ormai lontana sentenza della sezione III civile, datata 13 maggio 1982, n. 3013 secondo cui "L’indagine sulla sussistenza del nesso di causalità fra un'affezione o lesione personale ed una terapia medica od un intervento chirurgico, al fine dell'eventuale risarcitoria dell'autore di tale terapia o intervento, implica il necessario ausilio di nozioni di patologia medica e medicina legale, con la conseguenza che non potendo questa fornire un grado di certezza assoluta sulla derivazione di un certo evento da un determinato antecedente, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie quando non risulti la preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori idonei a provocare l'evento medesimo".
Questa massima è particolarmente rilevante non solo per il riferimento al criterio di probabilità scientifica, ma anche perchè richiama con chiarezza la necessità di applicazione del cosiddetto "criterio di esclusione di altre cause", cioè della diagnosi eziologica medico-legale differenziale, che è passaggio centrale della criteriologia medico-legale in tema di nesso causale.
E’ sperabile che la sentenza n. 1688/2000 qui annotata - assieme a quelle sul tema generale del nesso causale che l'hanno preceduta nell'ultimo decennio - sia diffusamente portata a conoscenza di tutti gli operatori del diritto che si occupano di responsabilità medica, con la stessa rapidità con cui la citata sentenza n. 371 del 1992 è stata conosciuta tramite le stampa quotidiana, spesso incline al sensazionalismo e assai di frequente connotata per la superficialità delle letture di eventi e di documenti. Si può forse ritenere incredibile che presentazioni giornalistiche di questo tipo siano capaci di raggiungere ed influenzare anche giuristi sperimentati e medici legali accreditati. Ma di fatto ciò accade con una frequenza non irrilevante, il che mette in risalto da un lato le responsabilità della stampa non specializzata (che alterna quasi quotidianamente l’esaltazione e la denigrazione dei medici), dall’altro le frequenti disattenzioni culturali degli addetti ai lavori.
4. E' opportuno riflettere brevemente sulla motivazione di cui le due citate, contestabili sentenze n. 4329/1983 e n. 371/1992 si sono avvalse per affermare la sussistenza di un nesso causale tra condotta medica omissiva e danno anche in casi di bassa probabilità effettiva di tale nesso.
Tale motivazione poggia essenzialmente sul valore primario del bene della salute e della vita il quale giustificherebbe una diversa applicazione dei principi generali della causalità nei confronti dei medici.
Tale valore, tuttavia, è in gioco anche in altri reati di danno, come ad esempio negli incidenti stradali per i quali, se le norme vigenti possono consentire una presunzione di colpa, pretendono comunque la prova ragionevole del nesso causale sia nelle condotte di azione che in quelle di omissione.
Pertanto si deve ritenere che l’indiscusso valore primario dei beni in gioco nei trattamenti medico-chirurgici non debba produrre inaccettabilmente differenziati criteri di accertamento del nesso causale tra condotta e danno, bensì semmai imporre il massimo rigore scientifico nella fase delle indagini medico-legali dedicata allo studio dell’eventuale carattere colposo delle condotte del medico, siano esse commissive ovvero omissive.
Si può, in altri termini, invocare una particolare attenzione nell'individuare negligenze, imprudenze, imperizie, inosservanze di norme da parte dei sanitari. Ma se il carattere colposo della condotta sanitaria è individuato con il rigore richiesto dal valore prioritario del bene che è in gioco, non può ammettersi tuttavia alcuna forzatura nell’accertamento del nesso causale tra la condotta ed il danno.
Il principio condizionalistico che sta alla base dell'ordinamento è già per proprio conto connotato da una notevole severità, per cui si deve pretendere almeno un nesso causale dimostrato e convincente: e ciò qualunque sia l'autore della condotta, un medico o un qualsiasi cittadino. Non è un argomento nuovo, ma le vicende giudiziarie di cui siamo stati diretti testimoni, e non poche perizie e sentenze, dimostrano il frequente smarrimento di principi medico-legali fondamentali e consentono di cogliere l’occasione offerta dall’importante sentenza n.1688/2000 per ribadire l’inaccettabilità del criterio di accertamento del nesso causale, di esclusiva produzione giurisprudenziale, che in caso di condotte ritenute colposamente omissive intenda porre il medico in una posizione particolare, e discriminante, rispetto a tutti gli altri cittadini.
La sentenza n. 1688/2000, nel momento stesso in cui afferma il dovere di acquisire la "copertura" di leggi scientifiche quando si accerta il nesso tra un comportamento professionale ritenuto omissivo e l’evento di danno, riporta il criterio scientifico al centro del contributo peritale medico-legale. E tale riposizionamento – reso necessario dalle troppo frequenti incertezze ed ambiguità peritali, causa a loro volta di decisioni giudiziarie non convincenti – assume valore generale e quindi tutela anche i medici, spesso vittima di pareri peritali basati su impressioni e valutazioni soggettive circa la correttezza della loro condotta e circa il nesso tra la condotta ed il danno. Ma tutela nel contempo anche i danneggiati, in quanto può dare maggiore consistenza al supporto probatorio medico legale delle loro tesi quando le nozioni e informazioni scientifiche, utilizzate dai periti con adeguato approfondimento, sono in grado di attribuire reale consistenza scientifica ai pareri tecnici. Che poi tali pareri, sia in tema di condotta professionale che di nesso causale, riescano a raggiungere sempre, o molto frequentemente, il livello della quasi certezza - per il nesso causale quote percentuali di probabilità addirittura vicine al cento percento, come afferma suggestivamente la Corte di Cassazione nella sentenza n.1688/2000 - non ci sentiamo, sinceramente, di poterlo affermare con adeguate motivazioni. Su questo punto, centrale in tutta la metodologia medico-legale, torneremo tra poco.

5. La sentenza in epigrafe richiama la divergenza esistente da tempo in dottrina sulla natura della omissione e sulla conseguente costruzione della causalità omissiva. Si tratta di un problema che ha non solo un’evidente rilevanza generale, ma che nella responsabilità medica occupa un posto di primo piano per la frequenza elevata delle accuse, rivolte ai medici, di condotte colpose omissive, non di rado addebitate ad un errore (commissivo) diagnostico, cui consegue, appunto, una omessa terapia specifica.
Ricorda la sentenza che la dottrina giuridica dominante nega che nei reati omissivi il rapporto di causalità sia identico a quello che si propone nei reati di evento commessi mediante azione, giacché in questi ultimi si deve accertare l'eventuale nesso tra dati reali del mondo esterno. Nei casi in cui si addebitano invece condotte omissive "improprie", il nesso causale si accerta "con un giudizio ipotetico o prognostico supponendosi realizzata l'azione doverosa e chiedendosi se, ove fosse stata presente, l'evento lesivo sarebbe venuto meno".
Un’altra parte della dottrina giuridica ritiene, invece, che la causalità omissiva non sia una causalità "ipotetica", ma sia anch'essa vera e propria "causalità reale", dovendosi tenere conto che, "in una visione moderna della causalità, le entità che entrano in relazione di causa ed effetto non sono forze o energie materiali, ma processi o eventi, sicché, se ciò è vero, bisogna includere tra quelle entità anche i processi statici", "con la conseguenza che, nella relazione di causa ed effetto, entra anche l'omissione, il non-fare, ché una condizione statica è pur sempre una condizione". Anche il non-fare, dunque, deve considerarsi causale quando risulti che, senza lo stato della persona costituito dal non compiere l'azione dovuta, l’evento lesivo non si sarebbe verificato.
Ne consegue, secondo questo indirizzo dottrinale, che "sotto il profilo dell'accertamento, il procedimento utilizzato per stabilire se l'omissione è condizione statica necessaria non è diverso, bensì identico, nella sua struttura, a quello cui si ricorre per giustificare la causalità dell'azione". "Identico è, infatti, l'oggetto della spiegazione: un avvenimento del passato; identico il giudizio che si deve compiere per individuare la condizione necessaria: il giudizio controfattuale o ipotetico teso ad appurare se, senza la condotta attiva od omissiva, l'evento si sarebbe o non si sarebbe verificato; identico il procedimento da impiegare, in via strumentale, per compiere il giudizio controfattuale: una spiegazione legata all'oggettivo sapere scientifico, che consenta di ricollegare l'evento lesivo ad un insieme di condizioni empiriche antecedenti, variabili o statiche; identica la struttura probabilistica della spiegazione offerta e identico perciò il carattere probabilistico dell'enunciato esplicativo".
Malgrado tali differenze, le conclusioni cui i due indirizzi dottrinali pervengono, quanto al grado di certezza raggiungibile nell'accertamento della causalità omissiva, finiscono pressoché per coincidere, affermando entrambi la struttura probabilistica della spiegazione del nesso causale in questi casi.

6. Di particolare importanza ci appare il passo della sentenza nel quale, richiamati con ampiezza i principi elaborati dalla Commissione che ha redatto il Progetto preliminare di riforma del Codice penale, si fa rilevare che i principi su cui tale Progetto si basa non valgono solo de jure condendo, ma anche de jure condito perché rinvenibili anche nel vigente Codice Rocco. Secondo la Corte la ricerca scientifica non solo consente ma addirittura impone, con il suo rigore, "di interpretare le norme del Codice vigente, sul rapporto di causalità, nel senso che la condotta deve essere condizione necessaria dell'evento ed essendo innegabile che la filosofia della scienza, la logica e il diritto esigano che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto - pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità - abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell'evento come verificatosi hic et nunc".
Ne deriva che se la condotta - azione od omissione - deve essere, per definizione, la condizione necessaria dell'evento, non potrà mai dirsi che una condizione, che avrebbe potuto essere causa soltanto al 50% o al 28%, è stata la condizione necessaria dell’evento. Sottolinea coerentemente la Corte che le percentuali pari a 50% o 28% di probabilità di evitare un evento di danno - attuando una condotta che si è invece colposamente omessa – sono "ben lontane dalla ‘quasi certezza’, dall'essere ‘vicine a cento’, come vogliono la scienza, la logica e come, conseguentemente, deve volere il diritto, sono ben lontane, dunque, dal poter essere per il giudice quella legge di copertura necessaria perché il rapporto di causalità venga costruito in termini scientificamente e, quindi, penalmente soddisfacenti".

7. Un rilevante problema è tuttavia collocato a monte del criterio medico-legale di accertamento del nesso causale nelle condotte omissive improprie: quando la condotta del medico può essere qualificata "omissiva", nell’accezione negativa del termine che implica un giudizio di colpa ?
Se si passa dalle enunciazioni giuridiche di principio, nel complesso facilmente comprensibili anche da parte del profano, alla formulazione di categorie di condotte professionali al fine di distinguere quelle doverose - la cui violazione comporta un giudizio di colpa – da quelle che non costituiscono regole consolidate e fisse, risulta evidente che il sostantivo "omissione", connotato negativamente, può essere impiegato con proprietà solo per talune categorie di condotte mediche, ma non per altre.
Questo è un tema che non può essere affrontato in questa sede, data la sua complessità ed il fatto che riguarda la colpa e non il nesso causale. Ma è opportuno richiamarlo anche in questa circostanza ricordando, con una preliminare e semplificante notazione, che tra le basilari regole interne all’arte medica figura l’antichissimo "primum non nocere" il quale, in una lettura aggiornata, si può ritenere comprenda tutte quelle condotte prudenti e competenti che implicano una ponderata valutazione dei pro e contro di determinati interventi diagnostici e terapeutici. Tale principio, che ha contenuti tecnici, fa sì che molte condotte di tipo attendista – cioè deliberatamente astensionista (non frutto, quindi, di negligenza od imprudenza) – possano essere legittimamente incluse nell’area dell’opzionalità discrezionale del medico, che si avvale di decisioni caso per caso, e momento per momento: le quali possono ovviamente anche risultare alla fine erronee e produttrici di danno, per insufficienza intrinseca di prevedibilità di una determinata evoluzione sfavorevole e perché collocate spesso nella zona grigia che separa l’errore giustificato da quello ingiustificabile.
In altri termini molte delle censure rivolte ai medici con il "senno del poi" - cioè per l’esito sfavorevole di un trattamento, e che con frequenza crescente riguardano condotte qualificate come "omissive" - devono oggi essere riconsiderate tramite una griglia criteriologica medico-legale che attende ancora di essere sistematizzata nell'attuale fase di lenta e faticosa costruzione della corretta e globale metodologia medico-legale necessaria all’esercizio peritale in ambito di responsabilità medica penale e civile. Nel contempo, come già detto al par. 4, devono essere massimi l’attenzione ed il rigore nel valutare le vere omissioni per negligenza che indubbiamente si incontrano nella pratica medico-legale.
Non si possono invece accettare gravi violazioni del principio di legalità e di uguaglianza che si annidano in modulazioni discriminanti dei criteri di accertamento del nesso causale. Le regole devono valere per tutti, medici compresi, e quindi la necessità del rigore scientifico, che autorevolmente la Corte Suprema ha affermato, appare non contestabile malgrado le difficoltà operative medico-legali siano spesso tali da rendere irraggiungibili i traguardi di probabilità vicini al cento.

8. Il ripetuto richiamo della sentenza n. 1688/2000 alla dottrina della sussunzione sotto leggi e le puntualizzazioni in essa contenute (del tutto condivisibili sul piano scientifico) circa l’utilizzo rigorosamente restrittivo del criterio probabilistico nell’accertamento del nesso causale, inducono a qualche commento complementare sul versante medico-legale.
La complessità del mondo moderno, in crescita continua ed esponenziale, rende sempre più profondo il solco che separa i vari settori delle conoscenze ed incrementa le difficoltà di comunicazione tra di essi. La cosiddetta "globalizzazione", processo che - seppur riguardante principalmente l’economia - investe indubbiamente anche il mondo dell’informazione scientifica, può attenuare questi ostacoli attraverso le facilitazioni introdotte dall’informatica. Oggi chi possa avvalersi di un computer collegato con Internet è in grado di accedere in tempo reale, dal più remoto ed isolato angolo del pianeta, ad informazioni di qualsiasi tipo, e quindi anche a quelle scientifiche che, per di più, sono prevalentemente scritte in lingua inglese, largamente diffusa.
Tuttavia l’accesso all’informazione non significa certo poter facilmente penetrare nell’intimo delle conoscenze specifiche di settore, che sempre più frequentemente appaiono patrimonio utilizzabile da pochi esperti, spesso superspecializzati all’interno di una determinata area disciplinare. Coloro che a questi esperti si rivolgono per ottenerne l’aiuto - come avviene nell’istituto peritale - devono accontentarsi di accettare la loro mediazione culturale attraverso semplificazioni e volgarizzazioni di nozioni e principi molto complessi, che espongono continuamente al rischio di erronee interpretazioni ed utilizzazioni nei casi concreti. Senza dire degli errori di "trasmissione" di tali informazioni che provengono dagli stessi esperti: sia perché spesso si tratta di esperti solo in apparenza, sia perché altri, pur realmente competenti, sono poco idonei ad utilizzare i contenuti del proprio sapere a fini diversi da quelli loro abituali ed a trasmetterli in modo sufficientemente comprensibile anche ai profani e, soprattutto, a renderli congrui all’obiettivo specifico del committente: esigenza che, in ambito peritale, presuppone una appropriata conoscenza degli obiettivi di natura giuridica.
L’istituto della perizia giudiziaria soffre in misura elevata queste difficoltà e non soltanto nella perizia medico-legale ma anche in altre. Le conseguenze pratiche negative di questa situazione sono sotto gli occhi di chiunque si soffermi a considerarle.
Per quanto ci riguarda siamo da lungo tempo testimoni di quanto avviene nell'area delle perizie medico-legali ed in particolare di quelle elaborate per casi di asserita responsabilità professionale medica.
Sempre più frequentemente, in questo settore, si osservano interventi tecnici, in qualsiasi posizione siano collocati – per l’accusa e le parti civili, per la difesa e per i giudici – in cui si concentrano negativamente carenze culturali mediche, carenze metodologiche medico-legali e gravi carenze di capacità di comunicazione argomentata, sia nelle relazioni scritte che, ancor più, nelle perizie orali. L’accertamento del nesso causale è tra gli aspetti che più risentono di tali inadeguatezze.
Quanto si è detto - ripetendo del resto concetti già espressi - viene riproposto in questa sede per la preoccupazione che gli ineccepibili principi affermati nella qui annotata sentenza possano rimanere di fatto lettera morta nei prossimi giudizi di merito. Ciò potrà infatti accadere se lo sforzo di approfondimento richiesto ai consulenti, e quindi agli stessi magistrati, non si eserciterà continuamente nei casi concreti, con la flessibilità modulata alle singole contingenze, ed avvalendosi dell'indispensabile criteriologia operativa. Se tale esigenza di approfondimento non sarà capillarmente soddisfatta, si correrà il rischio reale che il richiamo della Cassazione alle leggi scientifiche rimanga una interessante petizione di principio peraltro vanificata nella realtà dalle approssimazioni, quando non addirittura da grossolani errori.
A questo fine appare opportuno richiamare alcune elementari nozioni in tema di probabilità, per la quale diverse sono state le teorie elaborate: a dimostrazione che questo stesso concetto richiede, in chi se ne avvale nei casi pratici, qualche punto fermo che serva di orientamento. Conoscere la varietà delle tesi può infatti servire, nella pratica forense, a sollecitare la massima prudenza ed attenzione nell’uso dei principi e dei termini, in particolare degli aggettivi.
Nei giudizi medico-legali sono infatti assai frequenti le conclusioni probabilistiche basate su valutazioni largamente approssimative, mentre sono infrequenti le circostanze in cui ci si può avvalere di un calcolo vero e proprio: si tratta essenzialmente dei risultati di analisi di laboratorio come le indagini di paternità e le diagnosi "individuali" di appartenenza di tracce biologiche ad un determinato individuo. Negli altri casi, e nella responsabilità medica in particolare, i limiti tecnici del perito sono spesso rilevanti, per cui i giudizi probabilistici devono essere formulati con la massima accuratezza e con una esatta criteriologia scientifica benché priva di quantificazione percentualistica: è questo, ci sembra, il messaggio più importante che dobbiamo cogliere nella sentenza n. 1688/2000 della Cassazione.
E’ dunque indispensabile avere chiaro il concetto scientifico di probabilità ed i limiti che derivano, già in sede teorica, dall’avvicendarsi e competere di dottrine differenti sulla materia; ed in sede pratica, avere costante consapevolezza delle difficoltà che sono intrinseche all’utilizzo del criterio di probabilità per esprimere motivati giudizi sulla sussistenza, o meno, del nesso causale: non solo nelle condotte illecite omissive, ma spesso anche in quelle commissive.

9. Ci limitiamo a ricordare, in poche righe, che le discipline probabilistiche (la teoria della probabilità e la statistica induttiva) ebbero una prima soddisfacente sistemazione scientifica ad opera di P.S. de Laplace che diede dignità scientifica a problemi legati principalmente ad aspetti della vita comune (giochi d’azzardo, determinazione di rendite, ecc.). Quella enunciata da de Laplace è conosciuta come Teoria classica ed è basata sul principio dell’indifferenza: due eventi sono ‘equipossibili’ a parità di ragioni del loro verificarsi. La probabilità di un evento è definita come rapporto tra il numero dei casi favorevoli al suo accadimento ed il numero dei casi ‘equipossibili’.
La teoria classica lascia nel vago la nozione di ragione favorevole al verificarsi di un dato evento. Per tale motivo sono state elaborate le teorie logiche (Keynes, Johnson, Carnap, Jeffreys) che concordano nel riguardare la relazione fra un’ipotesi e le sue ragioni come una relazione logica fra proposizioni.
Le teorie frequentiste (von Mises, Reichenbach ed altri), in alternativa alla teoria classica, considerano la probabilità come la frequenza relativa di un evento in una serie causale di eventi simili ripetibili.
Le teorie soggettive si richiamano essenzialmente alla concezione elaborata da Savage e de Finetti. Un’asserzione di probabilità, secondo queste teorie, esprime l’aspettativa di un invididuo S relativamente al verificarsi di un evento E. Il grado di fiducia di S nel verificarsi di E è una funzione dell’evidenza disponibile; partendo dall’ipotesi che S sia disposto a modificarlo in relazione al crescere dell’informazione e in ottemperanza a certi requisiti di coerenza con il sistema complessivo delle sue aspettative, la probabilità soggettiva di E viene identificata con il grado di credenza ‘rettificata’ o ‘ ragionevole’ di S.
Infine si deve menzionare la cosiddetta assiomatizzazione della teoria delle probabilità, impostata verso una visione tollerante, antidogmatica, che negli ultimi decenni si è andata diffondendo e che si ispira alla convinzione secondo cui esistono molte interpretazioni della ‘probabilità’ o meglio molti metodi di misura di essa, ognuno dei quali si adatta meglio di altri a un particolare ambito di applicazione delle nozioni probabilistiche.
Si è ritenuto utile citare le principali teorie probabilistiche elaborate nel tempo, con il solo scopo di richiamare la complessità dei problemi teorici che in questo campo si presentano. Tra le teorie citate si ha l’impressione che meglio si adatti ai nostri fini l’ultima, perché dotata di una maggiore ed eclettica flessibilità.
Detto questo, appare tuttavia difficile trarre dalle teorie elementi per una trasposizione in ambito metodologico medico-legale. La conoscenza, pur anche approssimativa, di questo affascinante ambito culturale, appare inadeguata, di per sé, alla costruzione di una criteriologia generale applicabile con sufficiente praticità operativa da periti dotati di bagagli professionali così eterogenei come quelli che con crescente frequenza si incontrano nei tribunali.
Di questo rilevante ostacolo è indispensabile prendere coscienza allo scopo di rinverdire proposte metodologiche del passato che purtroppo vediamo rarissimamente applicate benché ad esse non siano state opposte motivate alternative. Ne faremo cenno al prossimo paragrafo.
Nel contempo, però, è necessario trarre anche un’altra conclusione: il dovere di informare i magistrati della povertà di mezzi di cui i periti medici legali dispongono per dare supporto al criterio probabilistico che oggi essi, tramite la sentenza 1688/2000 della Corte di Cassazione, ripropongono in termini doverosamente rigorosi ed esigenti.
Se tale chiarimento non viene realizzato, il mutato orientamento della Corte che emerge nella sentenza qui annotata potrebbe incontrare serie difficoltà applicative se gli stessi periti, omettendo di avvalersi di una rigorosa criteriologia in tema di nesso causale, continuassero a basarsi (come purtroppo spesso accade) su valutazioni soggettive sia in ordine all’esistenza di probabilità reali di un nesso causale, sia, soprattutto, sulla quantificazione del grado di tale probabilità.

10. Più volte, in passato, uno di noi ha tentato un riordino delle tappe criteriologiche indispensabili per la valutazione, positiva o negativa, del nesso causale in medicina legale. E’ una criteriologia non indispensabile in tutti i casi – che spesso si presentano con caratteri tali da non indurre a ragionevoli dubbi – ma necessaria in altri.
Ricitare le proprie proposte non ha il pregio dell’eleganza. Ma d’altro canto ci si sarebbe potuto aspettare un confronto dialettico che mettesse a raffronto ipotesi diverse. Ciò non è avvenuto ed il proponente dovrebbe prendere atto dello scarso interesse suscitato dalla propria elaborazione. Tuttavia si è indotti ad insistere di fronte al ripresentarsi del problema, oggi sollecitato ulteriormente dalla sentenza qui annotata: la quale presenta esigenze metodologiche medico-legali ancor maggiori rispetto al passato. Nella realtà peritale si ha l’impressione che perfino la rituale elencazione (ma in genere senza alcuna analisi) dei criteri di cui il perito dichiara di essersi avvalso – topografico, cronologico, di efficienza lesiva, di continuità ecc. – sia sempre più dimenticata. Ma senza essere sostituita da alcun altro criterio di giudizio, affidato spesso invece ad impressioni tradotte in convincimento.
In campo peritale, tuttavia, non è riconosciuto il diritto al libero convincimento, concesso invece ai giudici. Il parere tecnico deve essere motivato e la motivazione deve avere basi scientifiche. Queste basi servono per elaborare un giudizio finale attraverso la connessione scientifica, quindi razionale, dei dati: correlazione che passa, appunto, attraverso la griglia di criteri.
Considerato che l’impiego senza ordine gerarchico dei tradizionali criteri di giudizio medico-legali in tema di nesso causale appare ormai insostenibile alla luce delle attuali esigenze del criterio di certezza come pure di quello di elevata probabilità, non resta che riconsiderare la proposta di gerarchizzazione a suo tempo formulata: ovvero di prospettarne altre che, per quanto riguarda gli autori di questa nota, non appaiono all’orizzonte.
I due passaggi metodologici cardine costituiti dal criterio di possibilità scientifica del nesso causale e quindi dal successivo criterio di certezza o probabilità (che si avvale a sua volta di criteri articolati) rimangono per ora non superabili. Oggi, dopo la sentenza 1688/2000 ed il suo richiamarsi autorevolmente alla dottrina di Engisch della sussunzione sotto leggi di copertura scientifiche, la tappa preliminare costituita dal "criterio di possibilità scientifica" viene ad assumere un risalto se possibile ancora più rilevante.
L’aggettivo "scientifica" indica esplicitamente che la "possibilità" di un nesso causale deve essere primariamente indagata con le nozioni ed i metodi della scienza moderna, il che spesso è facile per la evidenza dei dati e del loro significato; ma di frequente è invece difficile richiedendo studio ed approfondimento.
La tappa successiva - che nel suo obiettivo finale si propone di effettuare la valutazione, positiva o negativa, sulla reale sussistenza del nesso causale - cerca di proporsi il traguardo della certezza e solo subordinatamente quello della elevata probabilità.
Di fatto la certezza medico-legale del nesso causale è raggiungibile – non solo in ambito di responsabilità medica – in un numero ridotto di casi, mentre i giudizi probabilistici, anche se non qualificati esplicitamente come tali, rappresentano invece la maggioranza, sia nelle condotte di azione che di omissione.
E’ per tale ragione che i giudizi di probabilità, pur non potendo essere, purtroppo, quantificabili in numeri percentuali (fatta eccezione per talune indagini identificative di laboratorio), devono essere solidamente fondati su basi scientifiche e criteriologiche tali da rendere la probabilità "seria e notevole", come più volte affermato dalla Corte di Cassazione in precedenti sentenze relative al nesso causale nelle condotte omissive dei medici (cfr. supra par. 3).
La sentenza n. 1688/2000 è apprezzabile anche sotto questo profilo, in quanto al punto V dei propri motivi cita, e sembra far propria, la dottrina che include implicitamente il pregiudiziale criterio di possibilità, ma nel contempo ne dichiara l'insufficienza richiedendo invece la sussistenza di una alta probabilità logica o elevata credibilità razionale: ed è questa che può considerarsi, sul piano pratico, vicina alla certezza, vicina a cento. La pretesa della certezza "è chiaramente utopistica", ma nel contempo, in tema di condotte omissive, il giudice non solo non può accontentarsi della mera possibilità, ma neppure di serie ed apprezzabili possibilità dì successo (cui hanno fatto riferimento alcune sentenze della Cassazione in precedenza citate). Il giudizio che gli viene richiesto deve essere invece provvisto di ‘elevata credibilità razionale’ o ‘alta probabilità logica’ o ‘quasi certezza’.

11. La sentenza n.1688/2000, che merita un ammirato consenso, non può tuttavia essere considerata un punto di arrivo, ma solo una tappa di un cammino aspro e tortuoso.
Le speranze che essa accende relativamente al nodo tra i più cruciali dell’applicazione del diritto, costituito dal nesso causale, non sono prive di contestuale preoccupazione per il futuro, specie per il contenzioso sulla responsabilità medica. Nello stesso mese di settembre del 2000 la Corte di Cassazione Civile ha infatti reso nota una sentenza che, in tema di nesso causale, si colloca in una posizione opposta estendendo i criteri di giudizio oltre ogni ragionevole limite, addirittura confondendo causalità e colpa.
E’ dunque necessario che si apra un ampio ed approfondito dibattito in questo delicato ed interessante momento, perché il ritrovato rigore della Cassazione penale sia adeguatamente pubblicizzato tra magistrati, giuristi e medici legali e non rimanga invece informazione e principio confinato a pochi cultori più attenti al dinamico mutare del diritto vivente. Nel contempo non può negarsi la preoccupazione che il rigore invocato dalla sentenza e previsto dalla Relazione Grosso, in tema di accertamento del nesso causale, non preluda all’introduzione nel progettato codice penale dei reati di mera condotta perseguibili indipendentemente dal danno arrecato: un pericolo di recente prospettato da Iadecola.
La lettura della sentenza n.1688/2000 appare infine di grande importanza come nuovo stimolo ai cultori della Medicina Legale affinché riprendano l’opera di approfondimento metodologico che i maestri del passato hanno compiuto nel corso di tutto il secolo ventesimo, specie nella sua prima metà. Il diffondersi del contenzioso per responsabilità medica, in particolare, ha aperto un capitolo della disciplina - in passato occupato da casi sporadici - il quale presenta le massime difficoltà di accertamento tecnico e, ancor più, di valutazione dei dati.
Il nesso causale è certo uno dei passaggi cruciali e su di esso dovranno ritornare a confrontarsi tutti i cultori della disciplina, affinchè le nuove leve non siano lasciate prive di un aggiornato supporto culturale nel quale le leggi scientifiche devono occupare un posto privilegiato. Il percorso di rielaborazione dottrinale, che si presenta come indispensabile nell’orizzonte dalla Medicina Legale, potrà trovare un aiuto rilevante, forse risolutivo, nelle idee del massimo metodologo del nostro tempo, Karl Popper, padre dell’analisi critica dell’idea di possesso della verità scientifica (le nostre conoscenze sono approssimate e verosimili) e del principio di argomentazione "falsificante", mediante la quale si possono dimostrare gli errori delle nostre ipotesi senza invece pretendere in termini certi la verificabilità degli assunti.
Su questa linea è da ritenere potrà incardinarsi il dialogo con i giuristi che i periti (perlomeno i periti medici) hanno il dovere di informare circa i limiti delle conoscenze scientifiche e quindi sulle difficoltà di pervenire a certezze auspicabili ma non sempre raggiungibili.

Angelo Fiori, Giuseppe La Monaca (in corso di pubblicazione su "Rivista Italiana di Medicina Legale")


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