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Il nesso di causalità nelle condotte mediche omissive deve avere probabilità vicina alla certezza
Inserito il 30 gennaio 2002 da admin. - medicina_legale - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Medico – Colpa professionale omissiva – Nesso causale con l’evento di danno – Criterio di probabilità vicino alla certezza – Necessità.

CASSAZIONE PENALE, Sez. IV, 28 settembre 2000 n. 1688, Pres. Pioletti. Rel. Battisti – Baltrocchi

La ricerca scientifica impone, con il suo rigore, di interpretare le norme del Codice vigente, sul rapporto di causalità, nel senso che la condotta deve essere condizione necessaria dell’evento.
Se la condotta - azione od omissione - deve essere, per definizione, la condizione necessaria dell’evento, non potrà mai dirsi che una condizione, che avrebbe potuto essere causa soltanto al 50% o al 28%, è stata la condizione necessaria dell’evento.
Le percentuali pari a 50% o 28% di probabilità di evitare un evento di danno attuando una condotta che si è invece colposamente omessa - sono ben lontane dalla "quasi certezza", dall'essere "vicine a cento", come vogliono la scienza, la logica e come, conseguentemente, deve volere il diritto, sono ben lontane, dunque, dal poter essere per il giudice quella legge di copertura necessaria perchè il rapporto di causalità venga costruito in termini scientificamente e, quindi, penalmente soddisfacenti.
La filosofia della scienza, la logica e il diritto esigono che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto - pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità - abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell'evento come verificatosi hic et nunc.
Il forse è il regno del possibile, il forse non è probabilità vicina alla certezza, non è percentuale di casi vicina a cento, è ben troppo poco per l’affermazione della responsabilità a parità delle altre condizioni necessarie per questa affermazione.
Se la stessa spiegazione del nesso causale nei reati commissivi ha struttura probabilistica, stante la rilevanza ai fini della decisione anche di leggi statistiche, le differenze nel livello di certezza del rispettivo accertamento della causalità reale e della causalità omissiva finiscono, forse, con il ridimensionarsi.
Il giudice non può non tenere conto, nell'esaminare le fattispecie concrete, dei migliori esiti della ricerca scientifico/giuridica, di quegli esiti la cui applicazione alla fattispecie in esame assicuri, al maggior livello possibile, il rispetto dei principi di tassatività e di stretta legalità.

1 - Il pretore di Milano, con sentenza del 2 giugno 1998, assolveva M. B. - medico di turno, il 4 marzo 1995, al Servizio Accettazione Pronto Soccorso dell'ospedale di R. - dalla imputazione di omicidio colposo, in danno di C. V., per non aver commesso il fatto.

2 - Il pretore accertava che, nella serata del 3 marzo 1995, il V., mentre era in casa, aveva accusato un malore e il medico curante, dopo averlo visitato e dopo avere diagnosticato "bronchite cronica e crisi ipertensiva", aveva redatto certificato di ricovero con la diagnosi di: "BPCO - bronco polmonite cronica ostruttiva - riacutizzata, crisi ipertensiva, paziente noto per precedenti ricoveri, pregresso IMA - infarto miocardio acuto -, in terapia con Lanoxin, Capoten 50".
Il V., la mattina del 4 marzo, veniva accompagnato dai familiari al Pronto Soccorso dell'Ospedale di R., dove, dopo alcuni esami, il medico di turno, il dott. B., ritenendo non necessario il ricovero, lo dimetteva prescrivendo una terapia aerosolica ed una visita specialistica da effettuarsi il giorno dopo.
Tornato a casa, il V. vi decedeva in serata.

3 - Il B. veniva citato a giudizio perché rispondesse del reato di omicidio colposo: aveva cagionato la morte del V. per non averne effettuato il ricovero e, comunque, per non averlo tenuto in osservazione e ciò sebbene l'emogasanalisi avesse evidenziato "ipossia, ipercapnia ed alcalosi metabolica", sicché il V., rinviato al proprio domicilio, "era stato privato di tutte le terapie idonee a prevenire e a fronteggiare la crisi cardio-respiratoria a seguito della quale era deceduto".

4 - Il pretore, pur rilevando che la condotta dell'imputato era, certamente, gravemente censurabile, in quanto non si era reso conto, pur dovendolo, delle reali condizioni del paziente, fortemente indicative di una elevata probabilità di morte imminente, riteneva che il B. dovesse essere assolto "non essendo emersi elementi che consentissero di affermare, con sufficiente grado di certezza, la derivazione causale della morte del V. dalle prospettate condotte - omissioni - del sanitario, essendo rimasta dubbia l'idoneità degli ipotetici trattamenti terapeutici alternativi, conformi alle regole di diligenza, a scongiurare il decesso del paziente o, comunque, a diminuirne il pericolo in misura percentualmente rilevante".
"Mancavano - proseguiva il pretore - adeguati fondamenti per affermare che cure ispirate ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche avrebbero quanto meno, spostato nel tempo il decesso ritardandone l'accadimento".
Aggiungeva che, per ritenere il rapporto causale, non poteva utilizzare "criteri di addebito vaghi quali ‘qualche speranza o limitata probabilità o possibilità, non quantificabile esattamente, di salvezza’".

5 - Proponevano appello sia il procuratore generale, sia il procuratore della Repubblica.

I - Il procuratore generale sottolineava che il pretore non aveva tenuto nel debito conto, pur richiamandolo, "il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale là dove è in gioco la vita umana anche solo poche possibilità di esiti favorevoli sono sufficienti a far ritenere la sussistenza del rapporto di causalità". Nel caso in esame, poi, "il perito e i consulenti non avevano affatto escluso che trattamenti adeguati avrebbero potuto dare qualche possibilità di esito favorevole, ma avevano espresso solo il dubbio che detti trattamenti potessero effettivamente impedire il decesso del V.".

II - Il procuratore della Repubblica, dopo aver svolto tutta una serie di considerazioni per dimostrare che era stata raggiunta la prova della necessità del ricovero del V. e della necessità di più approfonditi accertamenti diagnostici anche a fronte di una minima probabilità di successo, osservava che "la stessa giurisprudenza di legittimità è nel senso che sussiste il nesso di causalità tra la condotta e l'evento anche se l’intervento del sanitario offre non già la certezza bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo, tal che la vita del paziente possa essere salvata con certa probabilità".

6 - La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 19 novembre 1999, in riforma della sentenza del pretore, dichiarava l'imputato colpevole del reato ascrittogli condannandolo alle pene di legge.
La corte, posto in rilievo che "l'avere il B. dimesso il V. con un quadro di emogasanalisi patologico configurava comportamento gravemente colposo" e che, pertanto, "era pienamente giustificata e condivisibile la conclusione cui erano pervenuti i consulenti del p.m., secondo i quali ‘l'emogasanalisi, francamente patologica, doveva necessariamente sollecitare provvedimenti terapeutici e condurre alla decisione di, quanto meno, tenere in osservazione il paziente’", si soffermava sul nesso di causalità con le seguenti proposizioni.

a - "Due osservazioni dovevano essere fatte in ordine alle conclusioni del perito:

I - questi non aveva affermato che una terapia adeguata non avrebbe evitato nell’immediato l'evento morte;

II - le probabilità, ritenute dal perito, di sopravvivenza di mesi o anche di settimane erano inferiori al 50%, ma non erano irrilevanti, come da statistiche in nota, anche se molto limitate: in dibattimento il Perito ha affermato che era da ritenere che ad 80 anni, con una grave cardiopatia, con un fibrotorace, queste probabilità fossero estremamente basse";

III - "non dissimili erano state le conclusioni dei consulenti del p.m., della parte civile e della difesa".

IV – "Tali essendo le conclusioni del perito e dei consulenti tecnici, l'affermazione del primo giudice che ‘mancavano adeguati fondamenti per affermare che cure ispirate ed aggiornate acquisizioni scientifiche avrebbero quanto meno spostato nel tempo il decorso ritardandone l’accadimento’ non appariva fondata in fatto, dal momento che lo stesso pretore aveva ritenuto che nelle fattispecie omissive improprie non occorre la certezza che il comportamento positivo avrebbe impedito l'evento ma è sufficiente ‘una spiegazione probabilistica del non accadimento di esso e, nel caso in esame, vi erano elevate probabilità che 1'evento morte - così come verificatosi a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso - potesse essere evitato".

V - "Ma, nemmeno appariva fondata in diritto la tesi sostenuta dal primo giudice secondo cui il nesso di causalità sarebbe escluso quando vi siano non elevate probabilità, ma solo alcune concrete possibilità che il comportamento positivo richiesto - ed omesso - avrebbe impedito l'evento", ché, "secondo il consolidato insegnamento del giudice di legittimità, in tema di responsabilità per colpa professionale sanitaria, il rapporto di causalità tra la condotta omissiva colposa del sanitario e l'evento mortale che ad essa abbia fatto seguito è ravvisabile se il comportamento, non tenuto, ma astrattamente ipotizzabile, conforme a prudenza e perizia, aveva serie ed apprezzabili possibilità di successo, fermo che, là dove è in gioco la vita umana, anche solo poche possibilità di esito favorevole sono sufficienti per far ritenere la sussistenza del rapporto predetto".

7 - Il difensore ricorre per cassazione con due motivi denunciando, con il primo, "manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo, laddove si ritiene che ‘la decisione di dimettere il paziente fu un grave errore diagnostico e terapeutico che configura colpa professionale grave del sanitario’" e, con il secondo, "manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo laddove la corte di appello discredita la tesi del giudice di primo grado sulla esclusione del nesso di causalità tra l'operato del sanitario e l'evento mortale, tesi formulata dal pretore perché nessuno degli esperti esaminati - consulenti tecnici e perito - era stato in grado di pervenire con convinzione ad un favorevole giudizio prognostico riguardo alla effettiva possibilità di sopravvivenza per il deceduto oltre la sera del 4 marzo 1995".
Deduce che la corte di merito erra nell'affermare che "vi erano elevate probabilità che l'evento morte, così come verificatosi, a distanza di poche ore dal controllo del medico del Pronto Soccorso, potesse essere evitato se il B. avesse fatto ciò che doveva"; ed erra sia perché, secondo la stessa corte, il perito e i consulenti avevano detto che "le probabilità di sopravvivenza di ore, giorni, settimane, mesi, erano inferiori al 50%", sia perché, sempre secondo la corte, - pag. 18 - ciò significava che "non erano irrilevanti, anche se molto limitate", le probabilità di sopravvivenza, sia perché, infine, è la corte che, a questo punto, cita quanto affermato dal perito in dibattimento: "ad 80 anni, con una grave cardiopatia, con un fibrotorace sinistro, queste probabilità erano estremamente basse".
Motivi della decisione.

1. Il secondo motivo - la censura sul nesso di causalità ritenuto dalla corte di appello - è fondato, fondatezza che, per quel che si dirà, importa l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, il che esime dal soffermarsi sul primo motivo, con il quale è stata denunciata, quanto alla colpa, la mancanza di motivazione e la illogicità della sentenza: se, nella specie, il rapporto di causalità non sussiste, costituirebbe vano esercizio porsi a risolvere il problema della rimproverabilità o esigibilità della condotta.

2 - Questa suprema corte da ormai un decennio - Cass., sez IV, 6 dicembre 1990, Bonetti e, in seguito, tra le altre, Cass., 27 maggio 1993, Cass. pen., 1995, 2900 - ha fatto proprie, in tema di rapporto di causalità, le riflessioni della migliore dottrina e le conclusioni cui la stessa è pervenuta.

I - In quella sede la corte di cassazione dava ormai per acquisito che, come si esprime, sull'argomento, una delle voci più autorevoli della dottrina, "il problema causale nel processo penale consiste nello stabilire, attraverso la formulazione di un giudizio controfattuale - di un giudizio, cioè, compiuto pensando assente (contro i fatti) una determina condizione e chiedendosi se, nella situazione così mutata, sarebbe stata da aspettarsi, oppure no, la medesima conseguenza - se la condotta dell'uomo sia oppure no raffigurabile come condizione necessaria dell’evento o, meno tecnicamente, come circostanza responsabile dell'accaduto".
Si è anche chiarito, in quella sede, che il giudice, con il giudizio controfattuale, può ritenere di aver conoscenza di ciò che sarebbe o non sarebbe accaduto "non facendo, però, ricorso ad individualizzazioni, alla ricerca della causa caso per caso, alla ricerca della causa con l'intuizione, con la immaginazione creatrice", ma, in ossequio al principio di stretta legalità o di tassatività, facendo ricorso al modello, generalizzante, della sussunzione sotto leggi scientifiche, le uniche in grado di rendere solido l'accertamento del nesso, leggi che, proprio per questa garanzia di solidità, sono denominate leggi di copertura.
Si è aggiunto, poi, che "le leggi generali di copertura accessibili al giudice sono sia leggi universali, che sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento, sia le leggi statistiche che si limitano, invece, ad affermare che il verificarsi di un evento – causa – è accompagnato dal verificarsi di un altro evento - l'evento - soltanto in una percentuale di casi, con la conseguenza che questi ultimi sono tanto più dotati di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili".
Si è detto, inoltre, che "il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, sicché, per un verso, deve ricorrere ad una serie di assunzioni nomologiche tacite e dare per presenti condizioni iniziali non conosciute o soltanto azzardate e, per altro verso, il nesso di condizionamento potrà essere riconosciuto presente soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente - e non con certezza - da escludere l’intervento di un diverso processo causale".
Si è concluso asserendo - ed è questo il punto che è in questione nel caso in esame - che "il giudice, avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche - ove non disponga di leggi universali - dice che è probabile che la condotta dell'agente costituisca, caeteris paribus, una condizione necessaria dell'evento, probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell'agente, l'evento, con alto grado di probabilità, non si sarebbe, appunto, verificato".

II - Prima di riflettere sul significato che deve attribuirsi all'espressione con alto grado di probabilità e nel prendere atto che, nel caso in esame, si verte in una fattispecie di causalità omissiva è da porre in evidenza che sulla natura della omissione e sulla conseguente costruzione della causalità omissiva la dottrina ormai da tempo, non è più pacifica.
Se, invero, la dottrina dominante nega che nei reati omissivi il rapporto di causalità sia identico a quello che si riscontra nei reati di evento commessi mediante azione, perché in questi ultimi si deve accertare l'eventuale nesso tra dati reali del mondo esterno, mentre nelle fattispecie omissive improprie quel nesso si accerta con un giudizio ipotetico o prognostico supponendosi realizzata l'azione doverosa e chiedendosi se, ove fosse stata presente, l'evento lesivo sarebbe venuto meno, altra parte della dottrina è, invece, dell'avviso che la causalità omissiva, lungi dall'essere causalità "ipotetica", è, anch'essa, vera e propria "causalità reale", dovendosi tenere conto che, "in una visione moderna della causalità, le entità che entrano in relazione di causa ed effetto non sono forze o energie materiali, ma processi o eventi, sicché, se ciò è vero, bisogna includere tra quelle entità anche i processi statici - il tavolo che rimane immutato, si dice, è un processo, un processo statico, nel quale le grandezze considerate si mantengono costanti nel tempo - con la conseguenza che, nella relazione di causa ed effetto, entra anche l'omissione, il non-fare, chè una condizione statica è pur sempre una condizione".
Anche il non-fare, dunque, deve considerarsi causale quando risulti che, senza lo stato della persona costituito dal non compiere l'azione dovuta l’evento lesivo non si sarebbe verificato. Da tutto ciò - aggiunge questa dottrina - consegue che, "sotto il profilo dell'accertamento, il procedimento utilizzato per stabilire se l'omissione è condizione statica necessaria non è diverso, ma identico, nella sua struttura, a quello cui si ricorre per giustificare la causalità dell'azione".
"Identico è, infatti, l'oggetto della spiegazione: un avvenimento del passato; identico il giudizio che si deve compiere per individuare la condizione necessaria: il giudizio controfattuale o ipotetico teso ad appurare se, senza la condotta attiva od omissiva, l'evento si sarebbe o non si sarebbe verificato; identico il procedimento da impiegare, in via strumentale, per compiere il giudizio controfattuale: una spiegazione legata all'oggettivo sapere scientifico, che consenta di ricollegare l'evento lesivo ad un insieme di condizioni empiriche antecedenti, variabili o statiche; identica la struttura probabilistica della spiegazione offerta e identico perciò il carattere probabilistico dell'enunciato esplicativo".

III - La dottrina dominante, ponendo l'accento non sull'omissione come stato condizionante della persona, ma sull’azione doverosa omessa afferma, anch'essa, che, per effettuare il giudizio ipotetico o prognostico necessari per determinare il nesso omissione-evento, "il giudice suppone mentalmente come realizzata l'azione doverosa omessa e si chiede se, in presenza di essa, l'evento lesivo sarebbe venuto meno", che il giudice, cioè, si avvale pur sempre del giudizio controfattuale.
E anch'essa ritiene che "il giudice, per effettuare una simile prognosi, non potrà basarsi soltanto sulle sue personali conoscenze, ma, anche dinanzi alla omissione, i criteri di giudizio da adottare non possono che essere quelli del modello della sussunzione sotto leggi".
Questa dottrina è, però, dell'avviso, "quanto al problema del grado di certezza raggiungibile nell'accertamento della causalità omissiva", che questo accertamento, risolvendosi in un giudizio effettuato in termini ipotetici, non può dare lo stesso rigore esigibile nell'accertamento del nesso causale vero e proprio, sicché "ciò dovrebbe indurre ad accontentarsi di richiedere, in sede di applicazione della formula della condicio, che l'azione doverosa, ove compiuta, valga ad impedire l'evento con una probabilità vicina alla certezza".
"Ma - si osserva autorevolmente - se si accoglie la tesi che la stessa spiegazione del nesso causale nei reati commissivi ha struttura probabilistica, stante la rilevanza ai fini della decisione anche di leggi statistiche, ci si accorge che le differenze nel livello di certezza del rispettivo accertamento della causalità reale e della causalità omissiva finiscono, forse, con il ridimensionarsi".

IV - Preso doverosamente atto di tutto ciò - il giudice non può non tenere conto, nell'esaminare le fattispecie concrete, dei migliori esiti della ricerca scientifico/giuridica, di quegli esiti la cui applicazione alla fattispecie in esame assicuri, al maggior livello possibile, il rispetto dei principi di tassatività e di stretta legalità - e constatato che, pur prescindendo dalla disputa, tutt'altro che infeconda, sulla natura della omissione, le conclusioni cui i due indirizzi pervengono, quanto al grado di certezza raggiungibile nell'accertamento della causalità omissiva, finiscono pressoché per coincidere, il problema del significato da attribuire alla espressione con alto grado di probabilità - il giudice deve accertare che quella azione o quella omissione è stata causa dell'evento con alto grado di probabilità - non può essere risolto se non attribuendo alla espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica, cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirle il diritto.
Per la scienza non v'è alcun dubbio che dire "alto grado di probabilità", "altissima percentuale", "numero sufficientemente alto di casi", voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione od omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che "enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento", espressione che, come può notarsi, equivale a quella che usa la dottrina che, in tema di causalità omissiva, ritiene che il giudice può ravvisare il nesso causale se l'azione doverosa avrebbe impedito l'evento con una probabilità vicina alla certezza: è, infatti, difficile negare che, sul piano logico, l'espressione vicina alla certezza voglia dire qualcosa di diverso dalla espressione vicina a cento".
"In via conclusiva - osserva sul punto la autorevole dottrina alla quale si deve anche la costruzione della causalità omissiva come causalità non ipotetica, ma reale - si può dire che una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a 100 e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo, alla certezza".

V - Questa stessa dottrina si sofferma anche sulle affermazioni che, sul rapporto di casualità, si incontrano nella giurisprudenza sia di legittimità, sia di merito e le sottopone a critica alla luce del principio che alta probabilità logica o elevata credibilità razionale vogliono indicare un giudizio che si avvicina alla certezza, che si avvicina a cento.
"I giudici - questa la critica - debbono dar addio a due pretese antitetiche, la pretesa di approdare alla formulazione di giudizi di certezza e la pretesa di poter basare l'accertamento del nesso di condizionamento tra omissione ed evento su dei giudizi di mera possibilità, su serie ed apprezzabili possibilità dì successo".
"La prima pretesa, quella della certezza, prosegue la critica - è chiaramente utopistica, ché ciò che si può richiedere al giudice, anche sul terreno della causalità omissiva, è unicamente un giudizio provvisto di ‘elevata credibilità razionale’ o ‘alta probabilità logica’ o ‘quasi certezza’; la seconda pretesa risulta, invece, decisamente insostenibile".
"I giudizi di mera ‘possibilità’ sono, infatti, del tutto incompatibili con l'idea stessa di spiegazione dell'evento, ché un accadimento storico può ritenersi spiegato, può essere reso intelligibile attraverso una risposta alla domanda ‘perché?’, solo se si ha a disposizione una legge scientifica di forma universale o una legge statistica che enunci una regolarità nella successione di eventi in un'alta percentuale di casi, in una percentuale, cioè, vicina a cento, perché solo così si può pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale sulla esistenza del nesso di condizionamento: dire che è possibile che senza l'omissione l'evento non si sarebbe verificato si dice che forse gli eventi avrebbero potuto seguire un corso diverso, ma non si dà una risposta razionalmente accettabile in misura elevata al perché l'evento si è verificato".
"Troppo poco, dunque - è la conclusione - dal punto di vista della filosofia della scienza; troppo poco dal punto di vista logico e troppo poco dal punto di vista del diritto penale, che non può certo accontentarsi di un giudizio forse di responsabilità penale".

VI - Quanto si è detto - avendo avuto cura di sintetizzare, sul tema del nesso di causalità, il complesso iter della dottrina giuridica, le premesse culturali dalle quali quest'ultima muove, cultura dove filosofia della scienza, pura logica e diritto si intrecciano - consente di affermare che la corte di merito, che si ispira al criterio delle serie ed apprezzabili possibilità di successo, erra quando, riportando il giudizio del perito, dice che, secondo quest'ultimo, "le probabilità di sopravvivenza in mesi o anche in settimane erano inferiori al 50%, ma non erano irrilevanti, anche se molto limitate", aggiungendo, peraltro, che, in dibattimento, il perito aveva affermato che "era da ritenere che ad 80 anni, con una grave cardiopatia, con un fibrotorace, queste probabilità fossero estremamente basse".
La corte di merito, allorquando sottolinea che le probabilità di sopravvivenza erano limitate, ma non irrilevanti, cita, a conforto, alcuni dati statistici, offerti dal perito e citati nella nota 18 a pag. 18. La nota è del seguente tenore: "il perito ha ricordato che ‘in un lavoro su 157 ricoveri per insufficienza respiratoria... è riportata una sopravvivenza, nel gruppo di età tra i 75 e gli 80 anni, del 50%, mentre in uno studio precedente la mortalità era superiore; nello stesso studio si riportano come fattori di rischio l'età ed un pH basso, ma non i livelli di ipossiemia; da questa statistica è stata ricavata una formula di probabilità di morte... del 50%... che non appare, peraltro, corretta nel caso specifico in quanto si riferisce a pazienti con pH basso e PCO2 alta e non è noto se la popolazione studiata avesse tutti gli altri fattori di rischio... del paziente in esame.... in ogni caso, di tutta la casistica, quindi anche di pazienti con età inferiore a 75 anni, la sopravvivenza a 65 anni era del 28%".
Per rendersi conto che, sul piano scientifico, questi dati statistici non sono tali da suffragare le conclusioni cui è pervenuta la corte, è sufficiente riflettere che una percentuale del 50%, se può anche essere non irrilevante, è certamente, e lo è per la stessa corte, molto limitata e, a maggior ragione, molto limitata è una percentuale di sopravvivenza del 28%, sicché con queste percentuali, con questi dati statistici, non è davvero possibile costruire un rapporto di causalità scientificamente e/o penalmente rilevante.
Quelle percentuali - 50%, 28% - sono, infatti, ben lontane dalla "quasi certezza", dall’essere "vicine a cento", come vogliono la scienza, la logica e come, conseguentemente, deve volere il diritto, sono ben lontane, dunque, dal poter essere per il giudice quella legge di copertura necessaria perché il rapporto di causalità venga costruito in termini scientificamente e, quindi, penalmente soddisfacenti.
E la impossibilità di ravvisare un rapporto di causalità ove si abbia a disposizione una legge statistica che non vada aldilà del 50% o, addirittura, del 28%, l'impossibilità di poter effettuare un utile giudizio controfattuale con quei dati risulta chiarissima se si considera che il problema, in tutti i casi in cui ci si avvalga di leggi statistiche con grandezze lontane da cento o non prossime a cento, non è tanto sapere che le cure avrebbero salvato il paziente - nel caso di specie, il V. - al 50%, ma il non sapere e l'impossibilità di sapere se il paziente, il V., è morto per quella mancanza di cure - e, quindi, per l'omissione - o, invece, per il residuo 50% di cause-ragioni che, nonostante le cure, lo avrebbero potuto condurre ugualmente alla morte.
Se la condotta - azione od omissione - deve essere, per definizione, la condizione necessaria dell'evento, non potrà mai dirsi che una condizione, che avrebbe potuto essere causa soltanto al 50% o al 28%, è stata la condizione necessaria dell’evento.
E' proprio la legge statistica, che si invoca, che dice che quell'evento non è necessariamente riconducibile a quella causa, potendo essere ricondotto alla stessa o, con altrettante o, addirittura, maggiori probabilità - 72% - ad altre cause e il giudice non può ritenere che un fatto possa essere attribuito a qualcuno ove sia consapevole - ed è la stessa legge di copertura che invoca che gli impone di esserlo - che l'evento, se può esser stato cagionato da una certa condotta, può anche non esserlo stato, se, dunque, è da escludere, sul fondamento di quella legge statistica, che quella condotta possa essere definita condizione necessaria all’evento.

VII - E' il caso di porre in evidenza, a questo punto, che il "Progetto Preliminare di riforma del codice penale", elaborato dalla "Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D. M. 1 ottobre 1998", dispone, nell'art. 13, dedicato al "rapporto di causalità", che "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell'evento da cui dipende l'esistenza del reato" e, nell'art. 14, dove si interessa della causalità nei reati omissivi, che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell'attività omessa avrebbe impedito con certezza l'evento".
L'uso delle locuzioni "condizione necessaria, con certezza" dice con chiarezza che le premesse dalle quali muove il progetto, in tema di rapporto di causalità, sono esplicitamente quelle che si sono dianzi riassunte, premesse che la dottrina ha formulato in relazione alle norme, sul rapporto di causalità, del vigente codice, premesse che la "Relazione", che accompagna il Progetto, ribadisce con una serie di osservazioni che meritano di essere riportate per la loro valenza anche a prescindere dal Progetto il quale, peraltro, "non si discosta troppo dal testo del codice penale Rocco, al fine di sottolineare la continuità con una tradizione normativa consolidata ed idonea a fondare applicazioni corrette", come la Relazione scrive sub 2/2.
La Relazione, dopo aver premesso che "il tema del rapporto di causalità, che per ragioni di tempo non era stato affrontato nella prima fase dei lavori, ha costituito oggetto di una discussione particolarmente ampia della Commissione", così prosegue.
"La Commissione ha, innanzitutto, preso atto che la causalità, ed in particolare il modello nomologico-deduttivo, integrato dalle leggi di copertura, sta attraversando una fase critica. Vi sono, infatti, materie in cui l’erosione da parte della giurisprudenza di tale paradigma causale appare evidente e con riferimento alle quale tende ad affermarsi una ricostruzione della causalità ancorata a fattori di tipo prognostico-probabilistico, se non addirittura consistente nella rilevazione del rischio connesso all'esercizio di una determinata attività".
"Ciò si verifica, ad esempio, in settori quali: a) l'attività medica, dove, a fronte della pluralità dei fattori causali che sembrerebbero entrare in gioco, lo strumento statistico e la epidemiologia sono spesso diventati indicatori decisivi agli effetti della rilevazione del rapporto causale; b) le alterazioni ambientali, in cui gli eventi (in genere macro-eventi) dipendono da una serie di condotte e situazioni, spesso differite nel tempo e concorrenti con fenomeni naturali, con riferimento alle quali risulta difficile risolvere il problema causale limitandosi a richiedere se non aver tenuto una di quelle condotte avrebbe evitato l'evento nelle dimensioni verificatesi; c) la fenomenologia del danno da prodotto, nei cui confronti è ricorrente la impossibilità di identificare con certezza, o anche soltanto con elevata probabilità, quale sia stato il fattore produttivo di nocumento".
"La giurisprudenza, che si sta orientando verso ricostruzioni della causalità centrate su mere rilevazioni di tipo probabilistico, o su mere correlazioni condotta-rischio (o aumento del rischio), coglie un aspetto sicuramente importante della società moderna, sempre più caratterizzata da attività complesse, professionalizzate, che presuppongono un alto livello di organizzazione, all'interno delle quali non è molte volte agevole provare rigorosamente l'esistenza di un rapporto di condizionalità necessaria. In questo senso essa risponde alla esigenza di rafforzare la tutela penale in materie che coinvolgono beni giuridici di rilevante spessore (vita, salute, ambiente), introducendo una flessibilità applicativa delle norme sulla causalità che consentono di raggiungere livelli di intervento penale altrimenti impensabili in ragione della difficoltà della prova".
"Il costo di scelte di questo tipo è, tuttavia, elevato sul terreno della salvaguardia del principio di legalità e di tipicità delle fonti di responsabilità penale, rischiando, nei casi più macroscopici, di attentare al principio di personalità della responsabilità penale".
"Come è stato giustamente rilevato, mentre la causalità, ricostruita con il ricorso a leggi di copertura e ancorata al metodo dell'accertamento nomologico-deduttivo, svolge una importante funzione delimitativa della punibilità, consentendo di selezionare, nell'ambito delle fattispecie casualmente orientate, le condotte tipiche, il superamento di questo modello allarga la sfera di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conseguenza della condotta".
"Il principio di tassatività-determinatezza e il principio di personalità della responsabilità, che conformano il sistema penale anche a livello di enunciato costituzionale, impongono pertanto di salvaguardare la funzione selettiva del nesso di causalità e di formulare una disciplina per quanto possibile tassativa".
"La soluzione proposta risulta ispirata ai seguenti criteri:

- prevedere come principio cardine che ‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell'evento da cui dipende l'esistenza del reato: si tratta sostanzialmente della enunciazione del principio della condicio sine qua non, già enunciato nel comma 1 dell'art. 40 c.p. Rocco, qualificato dal riferimento al concetto di condizione necessaria (sostanzialmente conforme il progetto Riz, che con espressione un po’ ridondante parla di ‘condizione indispensabile e necessaria’)

- separare, in ragione della evidente diversità di struttura e della opportunità di formulare una disciplina specifica che tenga conto delle sue peculiarità, la c.d. causalità nei reati omissivi rispetto alla causalità materiale dei reati di azione, pur sottolineando, nel comma 1 dell'art. 13, che in entrambi i casi il profilo di condizionalità necessaria costituisce requisito indispensabile". Ecc.

"Enunciata la disciplina del rapporto causale nei termini sopra menzionati, la Commissione sottolinea che essa, ponendosi in continuità con la tradizione, intende contrastare le tendenze a forzare il criterio della condizione necessaria e ad eludere le esigenze di rigoroso accertamento del nesso causale relativamente all'evento in concreto verificatosi. La Commissione è ben consapevole che tali tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali (per es., la salute); ma, ritiene che, di fronte a fenomeni che non si prestino ad essere ricondotti ad un modello verificabile di causalità, strumenti di tutela adeguati vadano ricercati sul terreno della parte speciale: si pensi, in proposito, alla possibile introduzione di specifici e sufficientemente tipizzati ‘delitti di rischio’ ".
"Sul problema della causalità nei reati omissivi, la Commissione ha ritenuto di dovere proporre una formulazione che, pur muovendosi nel solco del vigente art. 40 cpv., comporta una meditata presa di distanza dall'interpretazione che ne é data dalla giurisprudenza prevalente".
"Secondo l'art. 14 'non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell'attività omessa avrebbe impedito con certezza l'evento’".......
"L'aggiunta apportata al vigente dettato normativo ha funzione restrittiva rispetto all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'omissione antidoverosa sarebbe causale quando l'impedimento dell'evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità apprezzabile, anche lontana dalla certezza. La Commissione è ben consapevole che tale ultimo indirizzo risponde ad esigenze condivisibili di reazione contro inadempimenti colpevoli anche gravi, ma ritiene che una soluzione che rinunciasse al requisito dell'impedimento certo si porrebbe in contrasto non semplicemente con il criterio della condizione necessaria, ma, soprattutto, con il principio di personalità della responsabilità (per l'atteggiamento critico nei confronti della sopra menzionata giurisprudenza è significativo il parere formulato dalla Commissione della Procura Generale)".
"Senza la certezza dell'effetto impeditivo (s'intende quella probabilità confinante con la certezza che può ragionevolmente raggiungersi) è, infatti, logicamente contraddittorio attribuire all'omissione, ancorché antidoverosa, il valore di condizione sine qua non dell’evento, non potendosi escludere che l'evento si sarebbe verificato anche se l'azione doverosa omessa fosse stata compiuta. In tal caso sarebbe, per l'omittente, un fatto altrui, che non può essere ascritto a suo carico pena la violazione dell'art. 27 Cost".

VIII - Come si è già accennato, non sembra possa dubitarsi che le proposizioni della Relazione valgano, oltre che de jure condendo, de jure condito, consentendo - anzi, potrebbe dirsi, imponendo, con il suo rigore - la ricerca scientifica di interpretare le norme del Codice vigente, sul rapporto di causalità, nel senso che la condotta deve essere condizione necessaria dell'evento ed essendo innegabile che la filosofia della scienza, la logica e il diritto esigano che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto - pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità - abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell'evento come verificatosi hic et nunc.

IX - La corte di appello ha anche detto più volte nella sentenza che "il perito non ha affermato che una terapia adeguata non avrebbe evitato nell’immediato, l'evento morte" tanto da farle concludere che "nel caso in esame vi erano elevate probabilità che l'evento morte - così come verificatosi a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso - potesse essere evitato".
Ebbene, non v'è il minimo dubbio che "la spiegazione causale rilevante è quella dell'evento, descritto dalla norma, quale si verifica hic et nunc", con la conseguenza che deve ritenersi "causa dell'evento quell'antecedente che abbia anticipato il suo verificarsi anche di una frazione di tempo" (anche Cass., 8 marzo 1974, Riv. pen. 1975, II, 782).
Non v'è ugualmente alcun dubbio che è proprio del giudice di merito la valutazione critica delle prove e, quindi, la valutazione/interpretazione critica degli atti, valutazioni che sfuggono al controllo in sede di legittimità purché correttamente motivate, sicché è anche certo, tra l'altro, che la corte di cassazione può disattendere la valutazione delle prove e la interpretazione degli atti date dal giudice di merito, e trarne le dovute conseguenze, ove dal testo del provvedimento impugnato risulti che quel giudice, date le premesse, non sarebbe mai potuto pervenire a determinate conclusioni.
Ebbene, la corte di Appello per dimostrare che le dichiarazioni del perito, se autorizzavano a ritenere che il V. al 50% non sarebbe sopravvissuto per settimane o per mesi, consentivano, però, di affermare che il V. non sarebbe morto se il B. avesse fatto quanto doveva - donde il ricordato giudizio di "elevate probabilità che l'evento morte, cosi come verificatosi a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso, potesse essere evitato" - richiama, oltre che le dichiarazioni del perito, quelle dei consulenti del p.m., della difesa e della parte civile e attribuendo ad esse il significato, il valore, attribuito alle dichiarazioni del perito.
Ma, sono proprio le dichiarazioni di uno dei protagonisti del processo, della parte civile - di colei che, sul piano processuale, avrebbe avuto interesse ad affermare il contrario, ad interpretare le affermazioni del perito così come le ha interpretate la corte nella sentenza - dichiarazioni che, giova ripeterlo, la corte pone sullo stesso piano di quelle del perito, che, per la loro inequivoca formulazione, impongono si dica che è lo stesso testo del provvedimento impugnato che nega radicalmente le conclusioni cui la corte è pervenuta.
"Il C.T. di parte civile - così la sentenza - ha dichiarato: "certamente un intervento terapeutico appropriato poteva, se non salvare completamente la vita di questo soggetto, forse prolungargliela un attimino … ore, giorni, settimane, mesi, forse non andrei in là".
E’ allora da ricordare che, come si è visto essere stato autorevolmente osservato, il forse è il regno del possibile, che il forse non è probabilità vicina alla certezza, non è percentuale di casi vicina a cento, che dal forse, dunque, del tutto illogicamente si argomenta, come fa la corte, "l'elevata probabilità che l'evento, così come verificatosi, a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso, potesse essere evitato", che dal forse non si deduce che la condotta del B. è stata condizione necessaria dell'evento, ma soltanto che forse lo è stata, forse che è, in conclusione, ben troppo poco per l'affermazione della responsabilità a parità delle altre condizioni necessarie per questa affermazione.

3 - Tutto ciò premesso, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma il 28 settembre 2000.


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