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Il Burn-Out dei medici: come riconoscerlo come prevenirlo
Inserito il 29 giugno 2024 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  



Cosa è il Burn-Out

Il burnout è una sindrome, ovvero un insieme di sintomi, e non è una malattia ben definita: infatti la sindrome da burnout non è riconosciuta né dall' ICD 10 (International Classification of Diseases) né dal DSM V° (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders).
Il dato non è casuale né dovrebbe destare stupore: gli esperti del ICD 10 hanno criteri molto rigorosi per riconoscere a un insieme di sintomi lo stato di malattia. Gli esperti del DSM 5 hanno criteri meno rigidi (e sono stati per questo severamente criticati per alcune scelte) ma ambedue non hanno ritenuto vi fossero motivi sufficienti per includere il burnout tra i disturbi psichici.
La storia come sempre ci aiuta a comprendere questi apparenti paradossi.
I primi a descrivere questo particolare disturbo furono due psicologi del lavoro: il tedesco Herbert Freudenberger nel 1974 e la americana Christine Maslach nel 1976. Ambedue descrissero questa nuova entità sottolineandone la genesi sociale.
Oggi possiamo affermare che il burnout è una sindrome psico- sociale che si manifesta prevalentemente con disturbi psichici (ansia, depressione, insonnia, talora attacchi di panico, sindrome post- traumatica da stress) e talvolta anche con disturbi fisici o somatizzazioni quali tachicardia, tremori, inappetenza, nausea, dispnea…
La componente sociale caratterizza il burnout su due livelli. Il primo livello riguarda il ruolo sociale e i contatti professionali che hanno gli individui che la sviluppano, ovvero le cosiddette “professioni di aiuto”: medici, infermieri, operatori sociali e sanitari, insegnanti, forze dell'ordine, ecc.
Il secondo livello riguarda l'individuo come componente di un gruppo di lavoro e quindi nella complessa rete di relazioni e interazioni professionali e personali: rapporti simmetrici o asimmetrici, gerarchici o paritetici, collaborativi o conflittuali. Tutte le relazioni e interazioni sono infatti caratterizzate da varie dinamiche psico-affettive che possono creare condizioni di stress e difficoltà di adattamento.
Questi due livelli di relazioni sociali comportano un notevole impegno intellettuale ed emozionale e possono essere fonte di gratificazioni, ma anche di frustrazioni, umiliazioni, delusioni e considerevole stress.
Vi è un terzo livello sociale che generalmente è fonte di gratificazioni che dovrebbero compensare ed equilibrare le tensioni, frustrazioni e delusioni provenienti dagli altri livelli: si tratta del livello familiare e della rete di amicizie e di affetti che possono sostenere a tal punto il soggetto da aiutarlo a sopportare le emozioni negative e gli insuccessi professionali.


Esordio ed Evoluzione
La sindrome da burnout nasce in questo contesto, un contesto di relazioni che si intersecano in vari modi modificando il modo di sentire, di pensare, di relazionarsi e di agire del soggetto, che avverte dapprima una perdita di motivazione, poi un vero e proprio rifiuto del lavoro a livello emozionale che si tenta di compensare a livello razionale: la persona cerca infatti di comprendere e di reagire ma spesso non è in grado di farlo efficacemente.
Compaiono allora i sintomi caratteristici: perdita di energia psichica e poi fisica, difficoltà sempre maggiore a compiere semplici mansioni lavorative, difficoltà di concentrarsi e di programmare il lavoro, difficoltà progressive a relazionarsi con gli altri (colleghi e pazienti) a comprendere i loro punti di vista, a collaborare per risolvere i problemi.
Questi sintomi di esordio possono essere contenuti, mitigati e talora anche superati se il gruppo di lavoro, la rete sociale e familiare offrono al soggetto comprensione, sostegno e compensazioni. Se invece il soggetto viene ignorato, isolato o addirittura stigmatizzato, il suo stato psichico e il suo rendimento lavorativo peggiorano sensibilmente, instaurando un pericoloso circolo vizioso che suscita ulteriori reazioni negative nei colleghi di lavoro e nelle persone cui quel lavoro è dedicato.
Queste reazioni mettono a dura prova l'equilibrio psichico del paziente. Compaiono generalmente disturbi di tipo ansioso e/o depressivo, ma talora anche fantasie abnormi: idee persecutorie cui il soggetto reagisce con aggressività o anche episodi di depersonalizzazione e derealizzazione, ovvero perdita di contatto con se stessi o con la realtà esterna che tuttavia non arrivano al delirio strutturato.
In questa seconda fase compaiono spesso anche disturbi somatici: tachicardia, dispnea psicogena, cefalea, vertigini, dolori addominali, difficoltà digestive ecc. Possono comparire fenomeni di dipendenza da farmaci, da alcool o da altre sostanze. In questo stadio generalmente il soggetto si assenta dal lavoro e inizia a valutare la possibilità di cambiare mansione lavorativa.
Se un radicale cambiamento nel lavoro e nelle relazioni sociali è possibile, la persona può aprire un nuovo capitolo della propria vita; se tuttavia cambiamenti radicali non sono possibili si instaurano equilibri psicofisici molto precari, con transitori miglioramenti e successivi peggioramenti. Farmaci ansiolitici, antidepressivi e talora neurolettici possono favorire l'adattamento, ma spesso al prezzo di una sedazione e di una riduzione della reattività psicofisica.
Più efficace è invece l’associazione di dosaggi moderati di farmaci con regolari sedute di psicoterapia, specie dei soggetti più giovani. L'obiettivo tuttavia non è il ritorno al passato, ma piuttosto l’accettazione di un ragionevole compromesso tra le esigenze lavorative e sociali e le necessità del soggetto che in questi casi dovrebbe essere aiutato a vincere inerzie e resistenze e ad accettare il cambiamento.


La diagnosi precoce e la terapia

Nella pratica medica è comune constatare come sia più facile la diagnosi negli altri piuttosto che in se stessi, perché l’autodiagnosi presuppone la capacità di valutarsi freddamente senza accondiscendenza e giustificazioni. Nella sindrome da burnout, tuttavia, l’autodiagnosi è molto più agevole rispetto, ad esempio, ad alcune forme di demenza. Se proviamo una progressiva estraniazione dal nostro lavoro, con perdita di motivazioni o addirittura con repulsione, se i rapporti con i colleghi e soprattutto con i pazienti si alterano e si deteriorano, se diveniamo facilmente irritabili, oppure, al contrario, del tutto disinteressati e cinici, se ciò che ci attraeva nel lavoro e nella relazione con gli altri ci è divenuto indifferente o ci infastidisce, dobbiamo anzitutto effettuare una importante diagnosi differenziale tra la sindrome da burnout e una forma depressiva.
Gli elementi dirimenti sono due: un dato indicativo per il burnout è che lo stato d'animo sia limitato quasi esclusivamente al lavoro mentre nella depressione si estende anche ad altri ambiti della nostra vita; fortemente indicativo per una forma depressiva è la presenza di tristezza, mentre il burnout è più spesso caratterizzato da apatia.
È possibile tuttavia la coesistenza di ambedue gli stati: nei casi dubbi è indispensabile consultare un buon psichiatra.
Sono stati proposti vari test diagnostici per il burnout: attualmente il più noto e usato, ancorché non del tutto soddisfacente, è il test di Shirom- Melamed validato presso l’Università di Tel Aviv e tradotto in italiano e diffuso in internet dall’Università di Zurigo. Allo stato attuale delle conoscenze il test è sicuramente utile per formulare una valida ipotesi diagnostica che andrebbe preferibilmente confermata anche attraverso una valutazione psicologica.
La terapia di una sindrome psico- sociale, per essere efficace, dovrebbe agire tanto sulle psiche che sul contesto relazionale e lavorativo della persona affetta, impresa questa tutt'altro che semplice, specialmente nelle situazioni piuttosto comuni in cui il disagio del lavoratore è legato a una cattiva organizzazione del lavoro, o peggio alla incompetenza ed alla inadeguatezza dei dirigenti.
È d'altra parte evidente come le possibilità di cambiamento sono più ampie ove il tipo di lavoro (pandemie permettendo) consenta discreti margini di autonomia e di autogestione: ad esempio la medicina generale rispetto ad altre specialità mediche ove l’autonomia e le possibilità di autogestione siano molto più ridotte quali la terapia intensiva.
Realisticamente, oltre a una moderata terapia farmacologica indirizzata a lenire i sintomi, è sempre molto utile una psicoterapia: come già anticipato, se non è possibile un radicale mutamento della organizzazione del lavoro e delle dinamiche interpersonali, l'obiettivo non potrà che essere un ragionevole compromesso tra esigenze sociali e lavorative e aspirazioni del soggetto, ad esempio compensando con impegni esterni le delusioni lavorative o semplicemente perseguendo l'obiettivo minimale di far trascorrere senza eccessivi danni il periodo di tempo necessario al soggetto per raggiungere l’età pensionabile.


Prevenzione

La prevenzione dovrebbe svilupparsi su due piani. Un primo piano è quello istituzionale: i servizi di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (Spisal) dovrebbero monitorare da un lato lo stress lavoro-correlato e i fattori favorenti l’insorgere del burnout (in particolare le relazioni professionali e personali all'interno di ciascuna equipe di lavoro con particolare attenzione alle modalità gestionali da parte dei dirigenti), dall’altro valutare le reazioni dei diversi lavoratori a un medesimo carico lavorativo nonché le differenti capacità di adattamento a quello specifico ambiente. Riscontrando segni indicativi di un rilevante stress psicologico gli operatori Spisal dovrebbero proporre correttivi all’organizzazione del lavoro, suggerendo cambi di mansioni nelle situazioni in cui il dato principale sia la particolare fragilità del lavoratore.
Un secondo piano è quello individuale e personale del medico, che dovrebbe essere formato nel corso dei vari tirocini pre e post-laurea ma a cui, invece, è costretto a provvedere personalmente: l’obiettivo da raggiungere è la conoscenza delle complesse interazioni negli ambienti di lavoro e la valutazione delle risposte del medico, che dovrebbe acquisire la capacità di interagire proficuamente con gli altri, facendo valere le proprie ragioni ove ciò sia necessario per il mantenimento del suo stato di benessere psicofisico.
Un dato sul quale molti esperti concordano è che alcune caratteristiche nello stile di vita avrebbero funzioni protettive: è, ad esempio, importante per il medico non sopravvalutare il lavoro e la carriera, che non dovrebbero essere gli unici interessi della propria vita; è importante che egli (o ella) possano ricavare gratificazioni e relax psicologico da ambiti sociali extra-lavorativi (sport, hobbies, volontariato ecc).
È anche importante che le molte inevitabili frustrazioni, stati di rabbia e delusioni che si incontrano della professione possono essere lenite e compensate dagli affetti e dalle amicizie.
Infine ricordiamo che nessuno di noi è perfetto, invulnerabile e autosufficiente, ma al contrario ciascuno può avere di tanto in tanto bisogno di risistemare il “puzzle” della propria vita.
Se dovessimo avvertire questo bisogno non dovremmo sentirci turbati né provare vergogna: a volte potrebbe essere sufficiente un periodo di “distacco dal lavoro” e di riflessione, meglio se in compagnia di persone amiche e competenti. Altre volte potremmo sentirci in seria difficoltà, tormentati da angosciosi pensieri ricorrenti: in questi casi non sopravvalutiamo le nostre capacità auto-terapeutiche e non sottovalutiamo quelle di altre "professioni di aiuto" quali psicologi e psichiatri.
Il burnout può colpire una buona parte di noi: possiamo prevenirlo, e possiamo anche curarlo, specie se abbiamo la saggezza e la umiltà di chiedere aiuto e di chiederlo presto.



Tratto da : “Guida alla professione medica” Autori: Giampaolo Collecchia, Riccardo De Gobbi, Roberto Fassina, Giuseppe Ressa, Renato Luigi Rossi, Daniele Zamperini
http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/medicina-e-salute/666455/guida-alla-professione-di-medico/

Rielaborato da Riccardo De Gobbi
Per la Bibliografia si consulti il testo originale


Per la terapia digitale dei disturbi psichici si può consultare:
Giampaolo Collecchia e Riccardo De Gobbi: Intelligenza Artificiale e Medicina Digitale Il Pensiero Scientifico Ed. Roma 2020
http://pensiero.it/catalogo/libri/pubblico/intelligenza-artificiale-e-medicina-digitale
















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