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Il Primo Incontro Paziente-Medico nel setting delle Cure Primarie
Inserito il 21 gennaio 2024 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  



Il primo incontro con la persona assistita avviene di solito nello studio del Medico di Medicina Generale (MG). In questo setting di lavoro i pazienti non sono selezionati: essi portano sia problemi clinici e psico-sociali, spesso destrutturati o mal definiti, sia problemi amministrativi e burocratici.

Le reazioni neuropsicologiche del paziente

Nel campo strettamente ‘clinico-psicologico’ il paziente consulta il medico per ottenere sollievo alle proprie sofferenze. La ricerca del sollievo inizia con il naturale desiderio di stare meglio e con la speranza di guarire completamente e in modo definitivo.
La speranza genera un’aspettativa positiva nei confronti del terapeuta, grazie alla quale si attiva il sistema dopaminergico- mesolimbico (emozioni positive). Se queste emozioni positive vengono confermate nel complesso scambio comunicativo, verbale e non verbale, vengono liberate dopamina e ossitocina che, come noto, migliorano almeno temporaneamente lo stato psichico e a volte anche fisico del paziente.
Le risposte del medico, ma anche i suoi atteggiamenti (mimica, sguardo, postura, tono di voce e prosodia, movimenti volontari e involontari, modalità di contatto con il corpo del paziente) hanno un’enorme importanza nel percorso diagnostico e terapeutico in quanto possono influenzare profondamente, con effetti positivi (placebo) o negativi (nocebo), la reazione psicosomatica e somatopsichica del paziente.

I meccanismi di difesa della specie umana contro la
sofferenza e la malattia


La neurofisiologia chiarisce le basi naturali di un fenomeno psicologico descritto da biologi, antropologi, storici e letterati: la specie umana, tramite un semplice ma prolungato contatto tra chi soffre e chi assiste, è in grado di lenire la sofferenza e talora di guarire la persona malata.
L’interazione malato-terapeuta (sia esso medico, psicologo, sciamano, familiare del paziente o semplicemente buon amico) è la base fondamentale, la conditio sine qua non, di ogni effetto terapeutico: si può anche non guarire, ma si migliora sempre, magari per poco, grazie alla semplice interazione umana, senza somministrare alcuna terapia.
È ovvio tuttavia che terapie di vario genere e tipo sono indispensabili per ottenere la guarigione o un miglioramento persistente nelle malattie più serie.
Da oltre un secolo gli effetti terapeutici non documentati sperimentalmente vengono definiti effetti “placebo”, il che originariamente era sinonimo di autosuggestione, credulità, o addirittura di “pietosi, altruistici inganni” da parte del medico.
In realtà la ricerca neurofisiologica degli ultimi 40 anni ha documentato, oltre ogni ragionevole dubbio, come l'effetto placebo (o nocebo quando il terapeuta non stabilisce una buona relazione con il paziente) ha una base neurochimica. In altre parole il miglioramento avviene grazie alla liberazione di vari neuromediatori (endorfine, dopamina, ossitocina, serotonina, ecc.) che del resto vengono liberati anche nel corso di terapie di accertata efficacia. Questi presupposti neurofisiologici ci permettono di rivalutare un altro aspetto plurisecolare della professione medica, componente essenziale della terapia e ingiustamente dimenticato nell’ebbrezza tecnologica del XXI° secolo: l'ascolto attivo e partecipato, l’attenzione al mondo interiore del paziente e conseguentemente la naturale comprensione empatica del suo modo di pensare, di agire, ma soprattutto di essere.
La ricerca neuroscientifica degli ultimi decenni sta colmando la profonda frattura che la tecnica aveva creato tra il mondo scientifico e quello umanistico. La medicina è sempre stata, ed è oggi più che mai, una disciplina scientifica basata sulle scienze biologiche, ma anche sulle scienze umane. La neuropsicologia è attualmente quella specialità che prima e meglio di qualunque altra potrebbe ricongiungere questi due mondi, lontani ma essenziali e complementari.

La prima telefonata

La prima telefonata è l'inizio di un percorso condiviso: è dunque sempre importante, tanto per il paziente che per il medico. Il paziente al telefono è sempre preoccupato e cerca di solito ansiosamente aiuto: le sue richieste possono essere confuse e inappropriate e il suo approccio relazionale può suscitare a volte irritazione e ansia nel medico, che non ama di solito rispondere direttamente al telefono. Spesso e volentieri delega pertanto a collaboratrici/collaboratori questa importante funzione privandosi così di informazioni molto utili che a volte saranno irrimediabilmente perdute.
Le modalità con cui il paziente si presenta nel primo contatto con il medico sono una sorta di esordio dei testi letterari: danno un’idea, sia pure parziale e limitata, del suo complesso modo di essere e di relazionarsi con gli altri.
Per evitare l'inconveniente della perdita di queste importanti informazioni vi sono varie alternative: la prima, ottimale, ma difficilmente praticabile, è che chi collabora con il medico abbia competenze psicosociali di livello sufficiente a comprendere lo stato d'animo di chi chiama, fornendo pertanto risposte appropriate e adeguate. La seconda possibilità è quella di una normale segreteria telefonica, la quale ha il vantaggio di registrare tono della voce, prosodia e contenuto del messaggio senza fornire risposte che la tensione e lo stress potrebbero rendere a volte poco cortesi o comunque fredde e dissuadenti.
Un’ulteriore possibilità, paradossalmente migliore rispetto ad alcune risposte degli umani, è un software di prenotazione che registra la richiesta del paziente e con frasi cortesi assicura una risposta in tempi brevi.
Comunque la migliore alternativa in assoluto resta sempre il contato diretto col medico curante, che (soprattutto se si tratta del MG) conosce a fondo il paziente e ha le competenze, sia scientifiche che tecniche, per dare risposte tranquillizzanti e soddisfacenti, nell’ambito di una comunicazione efficace.

Il primo colloquio – La prima visita

Il primo colloquio nell'ambulatorio del medico è simile per il paziente all'arrivo in un paese sconosciuto: proverà innumerevoli sensazioni ed emozioni, vari pensieri si presenteranno alla sua mente. I primi 10 minuti influenzeranno tutta la relazione medico-paziente. Psicologi e psichiatri hanno infatti approfonditamente esaminato le valenze del primo colloquio, non solo per il paziente ma anche per il medico. Dalle loro ricerche e dalle loro elaborazioni possiamo trarre molte utili indicazioni per la relazione medico - paziente.
Una prima fondamentale indicazione per il medico è di prepararsi emozionalmente al primo colloquio con il paziente, proprio per la grande rilevanza che questo contatto avrà sulla relazione e quindi sul percorso diagnostico-terapeutico. Il medico dovrebbe essere in grado, in quella occasione, di liberarsi delle proprie personali preoccupazioni e ancor più di eventuali personali sofferenze dedicandosi al paziente con attenzione, rispetto, interesse, apertura e moderata partecipazione.
È indispensabile che il medico lasci parlare liberamente il paziente almeno per 10 minuti e lo interrompa per brevi domande solo se strettamente necessario. È opportuno concedere nel corso della prima visita una ragionevole quantità di tempo al paziente ascoltandolo e osservandolo, (abbigliamento, postura, mimica, atteggiamento corporeo, prosodia, ritmo del discorso, modalità di essere seduto e di muoversi, ecc.) analizzando nel contempo il discorso a livello sintattico e semantico (gergo, espressioni linguistiche caratteristiche di subculture, etnie, comunità, associazioni verbali, lapsus, espressioni spontanee ecc.).
Come già accennato, nella fase di ascolto il medico deve dimostrare la massima apertura e disponibilità evitando assolutamente giudizi di ogni genere, ma deve nel contempo valutare il momento più opportuno in cui chiedere eventuali chiarimenti.
Dopo che il paziente ha esposto i suoi problemi, potranno iniziare le domande del curante, poste con termini semplici e comprensibili, atte a identificare, nelle sofferenze e nei bisogni del paziente, ciò che sia suscettibile di risposte di tipo medico. Spesso i problemi sono complessi e richiedono risposte anche in ambito psicosociale. È bene in questi casi distinguere ciò che il medico può realisticamente fare da ciò che potrà essere risolto solo grazie alla collaborazione con altre figure professionali, dallo specialista allo psicologo, all’assistente sociale.
Una parte essenziale del colloquio sarà dedicata ovviamente all’anamnesi. In particolare, il medico nel racconto spesso disordinato del paziente deve distinguere i “fattori confondenti” dai dati significativi traducendo il tutto in una storia significativa nel linguaggio della nosografia ufficiale.
Al termine del colloquio iniziale sarà opportuno che il medico riveda e verifichi assieme all’assistito quanto è stato detto, per evidenziare eventuali incomprensioni e rendere la comunicazione chiara ed efficace.

Terminate le domande chiarificatrici e ascoltate le risposte è indispensabile che il medico visiti il paziente non solo per le ben note motivazioni cliniche, ma anche perché il contatto fisico ha molto spesso una valenza terapeutica sia pure iniziale e parziale.
Mentre nel setting specialistico l’esame obiettivo (EO) è di norma generale, nello studio del MG anche l’EO è di solito ‘focalizzato’ sul problema specifico.
In un processo dinamico dialogante, ogni medico, (mentre visita, ausculta, palpa, percuote, verifica riflessi, ecc.), pone domande e riceve risposte, per verificare o confutare le idee diagnostiche che via via si stanno generando nella sua mente.

Fase conclusiva del colloquio

Dopo la visita il medico, se lo riterrà necessario, potrà prescrivere esami di approfondimento ed una eventuale terapia. Il medico può anche concludere la consultazione scegliendo di non effettuare esami e di non prescrivere terapie, ma in questi casi dovrebbe essere consapevole che le parole che andrà a utilizzare avranno un’importante risonanza psicologica che potrà essere positiva se egli riuscirà a trasmettere una sensazione di interesse, di partecipazione, di sicurezza nelle scelte, magari accompagnata da un atteggiamento di moderato ottimismo, in grado di infondere speranza: la ricerca neuroscientifica ha infatti dimostrato che questa è la base essenziale dell'effetto placebo.
Infondere speranza, anche nelle situazioni più serie, non significa illudere, né tantomeno mentire; significa valorizzare tutte le risorse disponibili e utilizzarle nel percorso diagnostico-terapeutico; significa anche, ove la guarigione sia impossibile e la fine non lontana, aiutare il paziente a comprendere questa dura e sofferta realtà e ad accogliere ciò che la vita e le terapie possono ancora offrire, sostenendolo in particolare nelle drammatiche scelte di fine vita.
Interesse, comprensione, valorizzazione, sostegno, condivisione, speranza: non è facile nel corso del primo colloquio e della prima visita trasmettere questi stati d'animo di grande valore terapeutico, ma non è neppure particolarmente difficile: se la nostra intelligenza emotiva è sufficientemente addestrata e valorizzata sentiremo e capiremo che via via che il paziente si apre, ci offre le chiavi per comprenderlo, sostenerlo, aiutarlo. L'alleanza terapeutica germoglierà allora come un fiore spontaneo...


Bibliografia

1)Fabrizio Benedetti: Il cervello del paziente Giovanni Fioriti Editore Roma 2012

2)Fabrizio Benedetti: Effetti Placebo e Nocebo Giovanni Fioriti Editore Roma 2015




Tratto da : Guida alla professione medica Autori: Giampaolo Collecchia, Riccardo De Gobbi, Roberto Fassina, Giuseppe Ressa, Renato Luigi Rossi, Daniele Zamperini

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/medicina-e-salute/666455/guida-alla-professione-di-medico/



Rielaborato da Riccardo De Gobbi





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