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Griffati ed equivalenti per le malattie cardiovascolari hanno la stessa efficacia clinica |
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Inserito il 10 agosto 2009 da admin. - cardiovascolare - segnala a:
Secondo una revisione sistematica i farmaci equivalenti per le malattie cardiovascolari hanno la stessa efficacia in ambito di trials clinici di quelli "griffati".
Gli autori di questa revisione sistematica sono partiti dalla constatazione che sia i medici che i pazienti temono spesso che i farmaci equivalenti non siano efficaci dal punto di vista clinico come quelli di marca (o branded). E' stata quindi compiuta una ricerca di studi che hanno paragonato farmaci griffati e farmaci equivalenti usati per le patologie cardiovascolari. In questi studi veniva valutata sia l'efficacia clinica che la sicurezza. Sono stati trovati 47 studi, dei quali 38 erano RCT. L'equivalenza clinica era presente in 7 su 7 RCT per i betabloccanti; in 10 su 11 RCT (91%) per i diuretici, in 5 su 7 RCT (71%) per i calcioantagonisti, in 3 su 3 RCT per gli antiaggreganti piastrinici, in 2 su 2 RCT per le statine, in 1 su 1 RCT per gli aceinibitori, in 1 su 1 RCT per gli alfabloccanti, in 1 su 1 RCT per gli antiaritmici e in 5 su 5 RCT per il warfarin. Gli autori concludono quindi che le evidenze non supportano l'ipotesi che i farmaci braded siano clinicamente superiori agli equivalenti, tuttavia su 43 editoriali esaminati ben 23 (53%) si esprimevano negativamente sulla sostituzione di un farmaco griffato con l'equivalente non griffato.
Fonte: Kesselheim AS et al. Clinical Equivalence of Generic and Brand-Name Drugs Used in Cardiovascular Disease. A Systematic Review and Meta-analysis. JAMA. 2008 Dec 3;300:2514-2526.
Commento di Renato Rossi
Questa revisione sistematica dovrebbe tranquillizzare i medici più dubbiosi circa la sicurezza dei farmaci non branded o equivalenti (precedentemente conosciuti come "generici") in una patologia molto importante come quella cardiovascolare. La revisione mostra infatti che non vi sono differenze importanti per vari antipertensivi, per gli antiaggreganti piastrinici, per gli antiaritmici e per il warfarin. Non è raro incontrare medici scettici circa la sostituibilità del branded con il non-branded, ma spesso questa opinione è basata su casi anedottici, ovviamente importanti, ma che non possono avere valore generale. Si consideri che i controlli cui devono venire sottoposti i farmaci sono gli stessi sia che si tratti di branded o non branded e che questi ultimi sono spesso prodotti dalle stesse ditte dei griffati. Le varie autorità regolatorie, compreso il Ministero della Salute, hanno in più occasioni sottolineato che i farmaci equivalenti hanno qualità analoghe a quelli griffati. Tuttavia è esperienza comune che talora i pazienti, quando passano da un farmaco griffato ad uno equivalente, possono lamentare un' efficacia sintomatologica diversa oppure una minore tollerabilità. E' difficile dire in questi casi se si tratti di un fenomeno legato all'idea che il paziente si fa del farmaco cosiddetto "generico" (costa meno e quindi vale meno, una specie di effetto placebo al contrario), oppure se quanto riferito corrisponda realmente ad una efficacia minore oppure ad una diversa tollerabilità (probabilmente legata, più che al principio attivo, ad eccipienti diversi). E' successo, però, a chi scrive, di trovarsi di fronte anche a pazienti che affermavano di provare più beneficio o di tollerare meglio un equivalente che il corrispondente griffato. E' ovvio che si tratta sempre di casi anedottici, riconducibili alla estrema variabilità clinica insita in ogni singola situazione. Ma vi possono essere dei motivi che inducono il medico a non consigliare la sostituzione di un prodotto con un altro contenente lo stesso principio attivo, ma di una ditta diversa (non necessariamente quindi la sostituzione di un branded con un non branded)? In alcuni casi la risposta è affermativa. Anzitutto, come si diceva, una diversa risposta del paziente può portare a prescrivere una specifica "marca" e non altre. Un'altra evenienza può essere quella del paziente anziano, abituato da anni ad assumere alcuni farmaci con i quali prende confidenza sia come nome che come formato, colore, dimensioni e foggia del contenitore, etc. Un cambiamento potrebbe portare a difficoltà di autogestione della terapia, mancata compliance e, in qualche caso, sovradosaggi pericolosi. Questo fenomeno può avvenire soprattutto se l'anziano vive solo e non vi sono caregivers che si preoccupano di sovraintendere alla somministrazione dei farmaci. Anche in questi casi (che solo il medico di famiglia può valutare perchè conosce bene il paziente, lo segue da anni, sa qual è il suo contesto familiare e sociale) si può decidere in un senso piuttosto che in un altro. In conclusione: 1) come regola generale la qualità di branded e non branded dovrebbe essere considerata analoga 2) sono possibili singole eccezioni alla regola generale, eccezioni che possono portare a scelte specifiche che solo il medico curante potrà ben soppesare.
Commento di Luca Puccetti
Un conto è il mondo degli RCT, ove il paziente viene accuratamente scelto e monitorato, un altro quella della pratica clinica laddove mille elementi di variabilità e di criticità si affacciano in modo preponderante. Chi fa il medico in trincea avrà avuto benissimo esperienza di pazienti anziani che assumono contemporaneamente 2 marche diverse dello stesso farmaco, confusi dal diverso packaging, la cosa è molto più frequente di quanto non ritenga. La questione è ancor più acuita dalla sostituibilità selvaggia ossia dal fatto che sia possibile sostituire senza limiti qualunque prodotto contenente la stessa sostanza. Questa pratica si basa su una sorta di sillogismo aristotelico della equivalenza, dato che A sia l'originator e che B e C siano generci che abbiano provato la cosiddetta bioequivalenza rispetto ad A niente prova che siano equivalenti tra loro. Dunque nella pratica clinica avvengono eventi del tutto inesistenti nel mondo ideale dei clinical trials.
Ma anche se i farmaci generici fossero equivalenti anche nella pratica clinica e non solo nei trials rispetto agli originator, non sarebbero una buona idea, almeno nell'attuale contesto normativo. A causa della scadenza brevettuale attualmente una grande quantità di risorse viene spesa per aggirare la scadenza brevettuale con sistemi di vario tipo che portano scarsissimi benefici al complesso delle cure, esaminati dalla prospettiva del cittadino. Chi produce i generici non investe in ricerca e chi investe cerca di farlo in settori "protetti" come i farmnaci biologici, dal costo altissimo. Il combinato dispoto di tali meccanismi porta ad una riduzione dell'allocamento di risorse verso farmaci innovativi per le patologie di grande impatto sociale. Questo avviene perché i farmaci disponibili sono già molto buoni e possiedono dati su end points clinicamente rilevanti. Per produrre dati simili riguardanti ad esempio ictus, infarti, riduzione di mortalità occorrono anni e trials su migliaia di pazienti. Tali studi costano moltissimo e se alla fine non si ottengono risultati o per l'ampiezza dello studio emergono eventi avversi importanti la ditta può rischiare di fallire. Meglio dunque puntare su prodotti di nicchia dal costo altissimo, per patologie di grande impatto emozionale e che riguardino relativamente pochi pazienti così il rischio di rilevare eventi rari è oggettivamente minore.
Scoprire, testare e dimostrare che un nuovo farmaco è efficace e ben tollerato è infatti impresa ardua, lunga e costosa. Nel 2006 l'FDA ha approvato 17 nuovi farmaci, il più basso numero degli ultimi 10 anni. Questo scarso numero di nuove approvazioni può essere imputabile, almeno in parte, alla politica più restrittiva adottata dall'FDA dopo la vicenda del rofecoxib. E' verosimile che richieste più stringenti sul profilo di sicurezza dei nuovi farmaci (soprattutto per quelli destinati a patologie ad alta prevalenza) abbiano prodotto un notevole allungamento nei tempi di registrazione e quasi dimezzato il numero delle nuove approvazioni rispetto alla media degli anni precedenti (17 nel 2006 contro una media di 28 all'anno nell'ultimo decennio). Il profilo di sicurezza dei farmaci può essere testato solo con studi clinici di potenza ben superiore a quelli usualmente necessari per valutare l'efficacia clinica e ciò richiede maggior tempo, sia per l'arruolamento di un maggior numero di soggetti che per l'allungamento dei tempi di osservazione. Secondo PhRMA (Pharmaceutical Research and Manufacturers of America; http://www.phrma.org), l'associazione di categoria che raggruppa le maggiori industrie farmaceutiche statunitensi, si tratterebbe solo di momento contingente, legato alla ciclicità del fenomeno delle nuove approvazioni, che ha già visto in passato momenti di alti e bassi. I farmaci in fase di sviluppo e di cui sono in corso avanzati studi clinici, secondo PhRMA, sarebbero attualmente ben oltre un migliaio, tra cui 646 antineoplastici, 146 del sistema cardiovascolare, 77 per il trattamento dell'HIV e 56 per il diabete.
Anche dando credito a PhRMA, i nuovi farmaci approvati riguardano, in maggioranza, trattamenti per patologie rare o relativamente poco frequenti, dall’elevato impatto emozionale sull’opinione pubblica (come il cancro) e sono destinati spesso a sottogruppi di pazienti con particolari assetti genetici o che esprimono particolari proteine. Tali farmaci sono sempre meno rivolti alle grandi patologie sociali e sempre più a patologie di nicchia, ad alto impatto emozionale. Pertanto per testarne l’efficacia non si ricorre a obiettivi “forti”, ma ad end-points surrogati, come ad esempio la sopravvivenza libera da malattia, con differenze che, seppur statisticamente significative su casistiche selezionate, rischiano di tradursi in benefici scarsi nella realtà clinica. L’alto impatto emozionale sulla pubblica opinione di queste malattie, talora relativamente rare, fa dimenticare il rigore sugli end-points, che dovrebbe essere tanto più necessario quanto più costoso fosse il trattamento.
Inoltre questi farmaci costosissimi spingono le Agenzie regolatorie a limitare il numero di medici abilitati a prescriverli con rischi di limitare la libera scelta del paziente circa il medico e il luogo di cura e con il rischio di creare un'eccessiva concentrazione decisionale nelle mani di pochissimi prescrittori con scarsa circolazione delle esperienze tra i vari specialisti dei vari settori coinvolti.
Una proposta avanzata (L. Puccetti, 2008; aggiornamenti del Medico) è quella di allungare di molto (40 anni e più) i tempi di sfruttamento dei brevetti. Le aziende capaci di far ricerca continuerebbero a sviluppare i loro farmaci innovativi fino alle estreme potenzialità, supportandoli con studi ampi e rigorosi e soprattutto basati su end-points non surrogati. Tali studi necessiterebbero di molto tempo, ma l’allungamento del brevetto ripagherebbe ampiamente questa inerzia iniziale. Studi ampi significano inoltre maggior sicurezza per i cittadini poiché l’allargamento dei trials a casistiche molto numerose aumenta la probabilità di mettere in risalto eventuali problemi di sicurezza anche in piccoli subset di pazienti. Il costo del farmaco innovativo dovrebbe essere progressivamente più basso con l'andar del tempo ed in base ai volumi venduti. I decisori paganti o le autorità regolatorie, facendo pesare l’allungamento della copertura brevettuale, dovrebbero ottenere dal produttore una curva prezzo-tempo, persino più conveniente dell’attuale, formatasi alla scadenza brevettuale in base alla concorrenza tra produttori di generici. In un tale contesto si potrebbe davvero richiedere che per l'approvazione di un nuovo farmaco siano preventivamente fornite prove di efficacia e sicurezza, non solo in termini di eguaglianza con quelle dei farmaci già in commercio, ma di superiorità. I farmaci pseudoinnovativi dovrebbero ottenere un prezzo temporalmente corrispondente addirittura inferiore a quello raggiunto dal prezzo del farmaco di riferimento nel decalage della curva prezzo-tempo. Nella prospettiva di un lungo periodo brevettuale le ditte farmaceutiche immetterebbero in commercio farmaci con maggiori prove di efficacia e sicurezza, senza cercare dei “doppioni” di quelli di cui sta scadendo il brevetto, anche perché ciò non sarebbe conveniente. Le risorse verrebbero incanalate non nella commercializzazione di farmaci pseudoinnovativi, ma nella ricerca di farmaci realmente innovativi, gli unici che potrebbero ambire ad un prezzo relativamente più elevato. Parallelamente il prezzo dei costosi “farmaci biologici” dovrebbe scendere di molto, per garantire la libera prescrizione a tutti i medici competenti di tali farmaci e per rendere meno conveniente la commercializzazione stessa di tali farmaci rispetto alle molecole per le grandi patologie sociali. Gli enti regolatori potrebbero imporre prove più severe di quanto succede adesso, proprio perché, una volta approvato, il farmaco potrebbe essere venduto per lungo tempo e dunque eventuali ritardi nell'approvazione, motivati dalla richiesta di prove di efficacia sul campo su end-points clinicamente rilevanti e di sicurezza nell'impiego su vasta scala, non sarebbero insostenibili per l’azienda produttrice.
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