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Rosuvastatina superstar nei pazienti a basso rischio: lo studio JUPITER
Inserito il 12 novembre 2008 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Rosuvastatina 20 mg/die in prevenzione primaria in soggetti non dislipdemici, ma con PCR elevata, riduce eventi cardiovascolari.


Nello studio JUPITER (Justification for the Use of Statins in Prevention: an Interventional Trial Evaluating Rosuvastatin) sono stati arruolati 17.802 soggetti in apparente buona salute, senza precedenti per malattie cardiovascolari. I partecipanti dovevano avere un'età >= 50 anni per gli uomini e >= 60 anni per le donne, un valore di colesterolo LDL inferiore a 130 mg/dL e una proteina C reattiva ad alta sensibilità >= 2,0 mg/L. I partecipanti (età media 66 anni) sono stati randomizzati a rosuvastatina (20 mg/die) oppure placebo. L'end-point primario dello studio era costituito da infarto miocardico, stroke, rivascolarizzazione arteriosa, ospedalizzazione per angina instabile e morte per cause cardiovascolari. Il valore medio di colesterolo LDL al baseline era di 108 mg/dL, mentre la PCR era di 4,2 mg/L.
Lo studio doveva durare 4 anni, ma è stato interrotto anticipatamente dopo 1,9 anni, su raccomandazione del comitato di controllo indipendente, per un eccesso di eventi nel gruppo placebo.
La rosuvastatina aveva ridotto il colesterolo LDL di circa il 50% e la proteina C reattiva del 37%.
L'end-point primario si era verificato in 142 pazienti (su 8901 trattati) nel gruppo rosuvastatina e in 251 (su 8901 trattati) nel gruppo placebo (HR 0,56; 0,46-0,69). Un infarto miocardico si era verificato rispettivamente in 31 e 68 pazienti (HR 0,46; 0,30-0,70), uno stroke in 33 vs 64 (HR 0,52; 0,34-0,79).
L'end-point composto da infarto, stroke e morte da cause cardiovascolari si era verificato in 83 pazienti del gruppo rosuvastatina e in 157 del gruppo placebo (HR 0,53; 0,40-0,69). Risultarono ridotte anche le rivascolarizzazioni per angina instabile, ma non le ospedalizzazioni per la stessa patologia.
I decessi furono rispettivamente 198 e 247 (HR 0,80; 0,67-0,97).



Questi risultati erano presenti in tutti i sottogruppi esaminati, comprese le donne che rappresentavano circa il 38% dell'intera popolazione arruolata. Inoltre i benefici trovati con la rosuvastatina nei pazienti che avevano un basso rischio calcolato secondo lo score di Framingham (inferiore al 10% a 10 anni) erano simili a quelli riscontrati nei pazienti a rischio più alto.
Per quanto riguarda gli effetti avversi, la rosuvastatina non portò ad un aumento dei casi di miopatia o cancro, mentre si registrò un aumento di incidenza dei casi di diabete (3,0% nel gruppo rosuvastatina vs 2,4% nel gruppo placebo; P = 0,01).
Gli autori, sulla base delle curve di Kaplan-Meier, hanno calcolato che è necessario trattare per 2 anni 95 pazienti per evitare un evento compreso nell'end-point primario. Proiettando il dato a 5 anni si ottiene un NNT di 25.
In conclusione la rosuvastatina riduce l'incidenza di eventi cardiovascolari maggiori in soggetti apparentemente sani, senza iperlipemia, ma con elevati livelli di PCR ad alta sensibilità.

Conflitto di interessi
Lo studio è stato sponsorizzato da Astra Zeneca


Fonte:

Ridker PM et al. for the JUPITER Study Group. Rosuvastatin to Prevent Vascular Events in Men and Women with Elevated C-Reactive Protein. N Engl J Med 2008 Nov 20; 359:2195-2207.

Si consiglia di prendere visione del commento del Professor Patrono a questo link: http://www.sifweb.org/ricerca/sif_trial_clinico_nov08.php


Commento di Renato Rossi

Lo studio JUPITER suggerisce che il trattamento con 20 mg/die di rosuvastatina riduce gli eventi cardiovascolari in prevenzione primaria in soggetti con colesterolo LDL inferiore a 130 mg/dL e che, secondo le attuali linee guida, non necessiterebbero di una terapia con statine. Un editorialista si chiede da una parte se questi risultati debbano portare ad estendere le indicazioni delle statine anche a persone a basso rischio cardiovascolare e dall'altro se sia arrivato il momento di usare il dosaggio della PCR ad alta sensibilità, oltre agli altri parametri comunemente adoperati per valutare il rischio cardiovascolare. Alla prima domanda risponde che sicuramente la riduzione del rischio relativo evidenziata nello studio è notevole, tuttavia la riduzione del rischio assoluto ha un'importanza clinica maggiore: egli calcola che sarebbe necessario trattare per 1,9 anni 120 soggetti per evitare un evento cardiovascolare maggiore. Bisogna quindi valutare questo beneficio sia considerando i rischi di una terapia di decenni, sia i costi in termini economici. Per il momento non sappiamo quali possano essere i rischi di ridurre il colesterolo LDL a livello di 55 mg/dL (valore medio ottenuto dalla rosuvastatina) per anni, nè sappiamo l'impatto a lungo termine dell'aumento dei casi di diabete riscontrati nel gruppo rosuvastatina. Per quanto riguarda la seconda domanda, se sia il caso di usare il dosaggio della PCR ad alta sensibilità, l'editorialista conclude che lo studio JUPITER non ci dice a quale cut-off si dovrebbe iniziare il trattamento con statine, nè a quali pazienti si debba richiedere il test, per cui consiglia di attenersi per ora alle linee guida che ne raccomandano l'uso nei pazienti che, con lo score di Framingham, sono a rischio intermedio.
Lo studio JUPITER, oltre che essere stato pubblicato anticipatamente online dal New England Journal of Medicine, è stato presentato a New Orleans al Meeting dell'American Heart Association ed ha provocato reazioni contrastanti, com'era da immaginarsi. Alcuni, entusiasti, hanno suggerito che questi risultati dovrebbero portare presto ad un cambiamento delle linee guida, con un allargamento delle indicazioni all'uso delle statine in prevenzione primaria. Altri sono stati più cauti, sottolineando che bisognerebbe prima effettuare delle analisi dei costi e dei benefici di una terapia a lungo termine in soggetti "normali". Altri ancora hanno commentato negativamente l'interruzione precoce dello studio che non permette un bilancio completo degli eventuali rischi della terapia ed hanno proposto una certa cautela, suggerendo che sarebbero necessari ulteriori studi di conferma. Ci si deve chiedere però se sia giusto continuare uno studio quando l'analisi ad interim dimostra un chiaro beneficio della terapia, anche se è noto che l'interruzione precoce di uno studio comporta dei problemi di non semplice soluzione perché da una parte può amplificare i risultati del trattamento, dall'altra non permette di valutare completamente il rapporto rischi/benefici così come era stato pianificato a priori.
Infine, altri hanno richiamato i costi di una terapia che dovrebbe essere estesa a larghi strati di popolazione asintomatica.
Che cosa si può aggiungere a questi commenti? Dal canto nostro proponiamo alcune riflessioni.

1) Che le statine fossero utili anche in prevenzione primaria era già noto, tuttavia finora nessuno studio aveva dimostrato una riduzione della mortalità totale, ma solo di mortalità e morbidità cardiovascolari.

Come mai la rosuvastatina ha ridotto anche la mortalità totale? Essa non era un end-point primario e quindi si tratta di uno scherzo del caso? Oppure non tutte le statine sono uguali? O può essere che lo studio JUPITER abbia permesso, grazie al dosaggio della PCR, di evidenziare una particolare popolazione di soggetti che, pur non avendo sofferto di patologie cardiovascolari e pur non avendo una dislipidemia, presentassero in realtà a rischio elevato per la presenza di flogosi, testimoniata dall'aumento della PCR? Si tenga presente che comunque il BMI medio dei soggetti arruolati era di 28 e che il 41% circa aveva una sindrome metabolica.

2) I risultati del JUPITER sono trasferibili nella pratica di tutti i giorni?

Per valutare la trasferibilità del trial bisogna considerare da una parte i criteri di inclusione, ma dall'altra anche i criteri di esclusione. Erano esclusi pazienti che avevano usato in passato una statina, le donne che erano in trattamento ormonale sostitutivo, soggetti che avevano un aumento delle transaminasi, di CPK o della creatinina (> 2 mg/dL). Inoltre non potevano essere arruolati i diabetici, gli ipertesi o gli ipotiroidei non controllati, se vi era stata una diagnosi di cancro nei 5 anni precedenti, in caso di abuso di alcol o di droghe. Infine si consideri che quando lo studio venne interrotto il 25% dei soggetti arruolati non assumeva il trattamento a cui era stato destinato. Quale potrebbe essere la compliance, nel mondo reale, per una terapia che dovrebbe durare tutta la vita, da parte di persone che si sentono e si ritengono sane?

3) La rosuvastatina ha ottenuto questi risultati perchè è dotata di un' importante azione ipocolesterolemizzate [2]?

Ricordiamo che 20 mg di rosuvastatina ottengono una riduzione del colesterolo LDL di circa il 48%. Per ottenere una riduzione del 49% con atorvastatina bisogna usare 40 mg/die; con 80 mg/die di simvastatina si ha una riduzione del 42% e con 80 mg di pravastatina una riduzione del 33%. Secondo altri lavori 20 mg di rosuvastatina corrispondono all'incirca, come potenza, a 40 di atorvastatina, a 80 di simvastatina e a 160 di pravastatina [3,4]. Negli studi di prevenzione primaria le dosi di statina usate non corrispondevano, come potenza ipocolesterolemizzante, ai 20 mg di rosuvastatina usati in JUPITER. Questo spiega i diversi risultati ottenuti sulla mortalità totale?

4) Un'altra considerazione riguarda la riduzione in termini assoluti del rischio.

Già l'editorialista, nel suo commento, ha calcolato che bisognerebbe trattare 120 soggetti per quasi 2 anni per evitare un evento cardiovascolare grave. Tuttavia, esaminando la tabella 3 dello studio originale, abbiamo calcolato altri NNT, che forniscono un quadro più completo. Per esempio un infarto (fatale e non fatale) si verificò in 31 pazienti (0,34%) del gruppo rosuvastatina e in 68 pazienti del gruppo placebo (0,76%), con un NNT di 238. Uno stroke (fatale e non fatale) si verificò rispettivamente in 33 (0,37%) e in 64 (0,71%), con un NNT di 294. Uno stroke, un infarto o un decesso cardiovascolari si verificarono in 83 (0,95%) e in 157 (1,76%), con un NNT di 123. I decessi totali furono rispettivamente 198 (2,22%) e 247 (2,77%), con un NNT di 181. Stabilire se si tratta di NNT favorevoli o meno a questo punto non è semplice, in quanto nel piatto della bilancia devono essere messi anche gli eventi avversi e il costo per la comunità. Per quest'ultimo punto la risposta non può venire solo dai medici, ma anche dai vari sistemi sanitari. Attualmente un anno di terapia per paziente con 20 mg di rosuvastatina costa circa 560 euro. Questo significa che per evitare un decesso si devono trattare per 2 anni 181 pazienti, con un costo di circa 202.000 euro. Ovviamente il conto è complicato dal fatto che bisognerre detrarre tutti i costi per ricoveri, rivascolarizzazioni, etc. che si eviterebbero grazie alla terapia.

5) I pazienti del JUPITER, in realtà, non erano tutti a basso rischio.

I pazienti arruolati avevano un'età media di 66 anni, un colesterolo totale medio di 186 mg/dL, una pressione arteriosa sistolica di 134 mmHg e un colesterolo HDL di quasi 50 mg/dL; oltre il 15% era fumatore. Un uomo con queste caratteristiche, se fuma, ha un rischio calcolato col software del programma Cuore, messo a punto dall'Istituto Superiore di Sanità, di quasi il 15%, mentre se non fuma il suo rischio è del 9%. Più basso ovviamente il rischio nelle donne. Il rischio, però, era probabilmente maggiore di quanto deriva da questi calcoli, dato che il BMI medio della popolazione arruolata era di 28 circa, mentre oltre il 40% aveva una sindrome metabolica. Nelle analisi per sottogruppi lo studio JUPITER ha evidenziato che la riduzione degli eventi era simile indipendentemente dal rischio basale calcolato con l'algoritmo di Framingham. Tuttavia sarebbe stato interessante che gli autori avessero mostrato quanto era la riduzione in termini assoluti, e non relativi, nei sottogruppi a basso rischio (per esempio una donna non fumatrice). Probabilmente analisi future dei dati del trial, pur con tutti i limiti di questo tipo di analisi, forniranno ulteriori elementi che potranno aiutare a capire meglio chi più si avvantaggia della terapia e chi invece ne trae un beneficio, in termini di NNT, molto più limitato.

In conclusione, come si può vedere non è facile decidere. Tanto è vero che il New England Journal of Medicine, nel suo sito web, ha approntato un sondaggio chiedendo ai lettori se, dopo la pubblicazione del JUPITER, cambieranno o meno la loro pratica prescrittiva. Sarà interessante valutare quali risposte daranno i medici.



Referenze

1. Hlatky MA. Expanding the orbit of primary prevention — Moving beyond JUPITER. N Engl J Med 2008 Nov 20; 359:2280-2282.
2. BMJ 2003; 326: 1423-1429.
3. Eur Heart J. 2007; 28: 154-159
4. Circulation 2000; 101:207-213.



Commento di Luca Puccetti

Lo studio Jupiter, come già evidenziato brillantemente da Renato Rossi, ci pone formidabili questioni.

Tra le tante la prima che discuteremo è se la PCR ad elevata sensibilità sia utile a predire il rischio di eventi.

Partiamo dalla constatazione che le statine in prevenzione secondaria hanno un ben consolidato razionale d'uso con un NNT relativamente basso.
La popolazione arruolata nello studio Jupiter in realtà, pur avendo valori di colesterolo non elevato presentava, come ben evidenziato da Renato Rossi, un rischio intermedio, calcolato in base agli attuali criteri epidemiologici. Questi criteri usano la presenza o assenza di un evento (quindi il paziente ha già subito un danno) associato ad indicatori di rischio o fattori di rischio.

Con questa strategia ed usando le migliori terapie che abbiamo, anche nel caso delle statine più efficienti, abbiamo ancora NNT piuttosto elevati. Questo significa che con l'attuale strategia diagnostica-allocativa della terapia somministriamo "inutilmente" il farmaco o i farmaci ad un elevato numero di soggetti che non svilupperanno eventi o che li svilupperanno nonostante la terapia. Se ciò è vero in prevenzione secondaria, lo è ancor di più in prevenzione primaria ove la frequenza degli eventi è ben inferiore. Ecco che diviene interessante trovare nuove strategie per cercare di migliorare la capacità di individuare chi avrà l'evento e chi non lo avrà. Accanto alle strategie basate sulla presenza di eventi o di condizioni ad esse assimilabili, come il diabete, e la presenza di fattori/indicatori di rischio, possiamo usare strategie che vanno a cercare segni preclinici di eventi: ad esempio l'accumulo di calcio nelle coronarie, e la disfunzione endoteliale valutata con vari metodi. Nel caso dello studio Jupiter si è usata la PCR ad alta sensibilità che può essere asseverata a questi biomarker che non sono solo indicatori di rischio, ma segni preclinici di malattia.

Infatti la proteina C-reattiva agisce anche con un meccanismo di danno diretto sull'endotelio, riducendo il rilascio di ossido nitrico ed aumentando la produzione di endotelina-1, ed induce l'espressione delle molecole di adesione endoteliale. Ovviamente la proteina C-reattiva pecca di specificità, aumentando anche in condizioni diverse quali: infezioni, fumo di sigaretta, flogosi.

Combinando i classici metodi epidemiologici con questi nuovi indicatori di danno preclinico potremmo aumentare molto la capacità predittiva e dunque aumentare l'efficienza delle terapie tradizionali.

Questo approccio ha avuto una prima conferma dallo studio ULSAM, iniziato nel 1970 reclutando maschi cinquantenni residenti a Uppsala (Svezia), con lo scopo di identificare fattori di rischio cardiovascolari. Facendo riferimento al terzo ciclo di rivalutazione della coorte, che attualmente presenta un'età media di 71 anni, lo studio ha valutato se l'aggiunta del dosaggio di troponina I, peptide natriuretico pro-brain N-terminale (NT-pro-BNP), cistatina C e proteina C reattiva ad alta sensibilità ad un modello di valutazione con fattori di rischio tradizionali (età, pressione arteriosa sistolica, uso di farmaci antipertensivi, colesterolo totale, colesterolo HDL, uso di terapia ipolipemizzante, diagnosi di diabete, fumo ed indice di massa corporea) migliori la capacità di predire la mortalità cardiovascolare in soggetti anziani nella popolazione generale.

Il rischio di morte per cause cardiovascolari è risultato aumentato di 3 volte nei soggetti con due biomarcatori elevati, di 7 volte con tre, e di più di 16 volte con tutti e quattro i biomarcatori elevati.

L'aggiunta di tutti i biomarcatori considerati nello studio ad un modello di valutazione con i tradizionali fattori di rischio aumentava significativamente la predittività per morte cardiovascolare. Nel gruppo di soggetti esenti all'inizio dello studio da malattie cardiovascolari, la previsione con due biomarcatori era migliore misurando peptide natriuretico N-terminale (NT-pro-BNP) e troponina I, e con tre biomarcatori aggiungendo la proteina C-reattiva. La misurazione dei biomarcatori in aggiunta ai fattori di rischio tradizionali ha consentito dunque in questo contesto una riclassificazione dei soggetti esenti malattie cardiovascolari all'inizio dello studio, ad esempio tra i soggetti sopravvissuti, 115 sono stati riclassificati in una categoria inferiore, e 60 in una superiore.

I risultati dello studio suggeriscono che l'aggiunta delle determinazioni di peptide natriuretico N-terminale (NT-pro-BNP), troponina I e proteina C-reattiva al modello con i fattori di rischio tradizionali migliora significativamente la stratificazione dei soggetti senza malattie cardiovascolari in partenza (P<0,05 per tutti i confronti).

Un ulteriore miglioramento della capacità predittiva degli eventi cardiovascolari può derivare da studi su variazioni genetiche come ad esempio i polimorfismi dei geni codificanti per i fattori dell’emostasi.

Il progetto “Verona Heart Study” cui lavora da 12 anni l’équipe guidata dal professor Corrocher, studia le interazioni tra fattori ambientali e corredo genetico individuale nell’insorgere delle malattie cardiovascolari.
Proprio nell’ambito di questo progetto si è evidenziato che il rischio di infarto è tanto maggiore quanto più alto è il numero dei geni protrombotici alterati presenti nello stesso individuo, arrivando a raggiungere, nella situazione più sfavorevole, un incremento del rischio fino a sei volte maggiore.
La ricerca ha esaminato nell’arco di cinque anni 804 soggetti, 489 dei quali con malattia coronarica, comprovata per via angiografica, i restanti con coronarie sane. Di questi 307 erano infartuati, 182 senza episodi di infarto al miocardio. Lo studio ha dimostrato come con l’aumentare del numero di geni "sfavorevoli" aumentasse linearmente anche il rischio di infarto. Rispetto a soggetti con 3-7 geni alterati, quelli con un numero minore di 2 presentavano un rischio diminuito, mentre in quelli con un numero di geni alterati maggiore di 7 si è riscontrato un corrispettivo aumento del rischio.

Questa strategia mira ad individuare gruppi ad alto rischio cui destinare gli interventi. Ma esiste la possibilità di un altro scenario, ossia che il continuare sull'attuale livello di incremento delle condizioni di rischio, con un' esplosione di obesità, diabete, ipertensione, in poco tempo, porti una massa critica di persone ad un rischio medio/elevato, per cui strategie basate sull' high risk selection potrebbero divenire meno efficienti nel senso che il rischio sarebbe così aumentato, mediamente, che le strategie per cercare di definirlo meglio, porterebbero ad un sicuro aggravio dei costi di tale entità da far scendere il beneficio di una maggiore precisione nell'individuare i pazienti da trattare. Questo potrebbe essere vero soprattutto se il trattamento fosse ben tollerato e poco costoso.

Un' ulteriore riflessione riguarda la relazione tra colesterolemia LDL e rischio cardiovascolare. Lo studio Jupiter, a nostro giudizio, supporta soprattutto la tesi che non debba essere la colesterolemia a guidare la decisione se intraprendere un trattamento con statine in soggetti a rischio cardiovascolare, ma piuttosto una valutazione del rischio globale. Infatti gli stessi autori affermano che la riduzione relativa del rischio osservata sia circa due volte maggiore di quella attesa sulla base della riduzione dei livelli di colesterolo LDLD, ossia 47% vs 25%.

Come, ben evidenziato da A. Battaggia e E. Saffi Giustini, l'ipotesi di log-linearità tra rischio vascolare e colesterolemia LDL è basata soprattutto su dati osservazionali, mentre i dati della letteratura sperimentale e le relative metanalisi sono contraddittori e presentano spesso problemi metodologici che ne inficiano, almeno parzialmente, i risultati.

Il NCEP Report 2004 (ATP II Guidelines) sostiene l'esistenza di una relazione log-lineare tra rischio relativo di eventi coronarici e Colesterolo LDL, tuttavia ammette, riferendosi ai risultati del Prospective Pravastatin Pooling Project che dati della recente letteratura sperimentale non sembrano confermare l'esistenza di questa relazione, essendo stata segnalata la mancanza di chiari vantaggi nel ridurre la concentrazione delle LDL al di sotto dei 125 mg/dl.

Dopo la pubblicazione degli studi ENHANCE e SEAS la relazione tra colesterolemia LDL e rischio cardiovascolare è stata rimessa in discussione, sia pure forse impropriamente, sulla base di uno studio non basato su eventi, ma su un end point di imaging e di un trial sulla stenosi valvolare aortica. Difatti, nonostante una netta riduzione del colesterolo LDL ottenuta impiegando associazioni di simvastatina ed ezetimibe, non sono stati ottenuti risultati positivi sugli end point primari. Da tale corrente di pensiero si avanza l'ipotesi che la riduzione della colesterolemia non conduca con una relazione causale diretta ad una diminuzione degli eventi. Secondo Steve Nissen i risultati dello studio Jupiter invece rinforzerebbero il legame tra attività ipocolesterolemizzante e efficacia sugli eventi dato che si è registrata una riduzione del 50% del colesterolo LDL accoppiata con una riduzione del 37% della CRP. A nostro avviso tale osservazione invece non appare affatto avvalorare con una chiara evidenza l'ipotesi della relazione tra riduzione della colesterolemia e riduzione degli eventi, poiché non è certo dal livello della diminuzione di un parametro rispetto ad un altro che possono essere tratte tali inferenze, giacché è possibile che il ruolo della PCR rifletta molto più il rischio e che pertanto la riduzione del 37% rappresenti un indicatore molto più forte di quello relativo alla riduzione della colesterolemia. I risultati del Jupiter sono molto interessanti, ci sembra tuttavia opportuna una certa cautela nei riguardi della lettura dei risultati anche in funzione di un sostegno alla relazione causale tra riduzione colesterolemia e riduzione degli eventi, la spinta di allargare a dismisura la platea dei potenziali utilizzatori di terapie ipocolesterolemizzanti potrebbe infatti trovare da questa chiave di lettura un forte sostegno che porterebbe ad una formidabile spinta a trattare per anni una vasta platea di soggetti asintomatici a basso rischio cardiovascolare. A parte i costi, ben sappiamo quanto sia difficile traslare nella comune pratica clinica i risultati dei trials e quanto sia difficile mantenere in terapia per anni soggetti in prevenzione secondaria, ossia già segnati da un evento, figurarsi in prevenzione primaria, laddove la percezione del rischio non viene per nulla avvertita e l'intervento sarebbe rivolto ad individui più giovani, distratti dai mille impegni della vita quotidiana.




Referenze

http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=3256

http://www.progettoasco.it/default2.asp?active_page_id=524

http://www.progettoasco.it/default2.asp?active_page_id=471

http://www.nhlbi.nih.gov/guidelines/cholesterol/

http://circ.ahajournals.org/cgi/content/full/103/3/387

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0001523

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