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Ivabradina nei pazienti con coronaropatia stabile e disfunzione sistolica
Inserito il 16 giugno 2009 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

La riduzione della frequenza cardiaca con ivabradina non migliora gli outcome cardiaci in tutti i pazienti con coronaropatia stabile e disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, ma potrebbe essere usata per ridurre l’incidenza degli esiti della coronaropatia in un sottogruppo di pazienti con frequenza cardiaca =70 bpm.

Un’elevata frequenza cardiaca a riposo è un fattore di rischio cardiovascolare potenzialmente modificabile, sia nella popolazione generale che in pazienti con patologie cardiovascolari.
Ampi studi con follow-up a lungo termine hanno mostrato che una frequenza elevata rappresenta un fattore predittivo indipendente di tutte le cause di mortalità cardiovascolare in pazienti con coronaropatia, a prescindere dalla presenza di ipertensione. Ridurre la frequenza cardiaca potrebbe comportare una diminuzione della mortalità e degli eventi cardiovascolari, ma un approccio del genere non è stato ancora formalmente testato, perché i farmaci al momento disponibili in grado di ridurre la frequenza cardiaca, come i ß-bloccanti ed i calcio-antagonisti non diidropiridinici, esercitano altri effetti cardiovascolari che generano confusione nei risultati.

L’ivabradina inibisce in maniera specifica la corrente If nel nodo seno-atriale riducendo la frequenza senza influenzare altri aspetti della funzione cardiaca (contrattilità miocardica, conduzione intracardiaca, ripolarizzazione ventricolare e pressione arteriosa). Per valutare se la riduzione della frequenza cardiaca con ivabradina riduca mortalità e morbilità cardiovascolare nei pazienti con coronaropatia e disfunzione sistolica del ventricolo sinistro è stato condotto lo studio BEAUTIFUL, un RCT multicentrico, in doppio cieco versus placebo, a gruppi paralleli, che ha coinvolto 781 centri (tra cui l’Università di Ferrara).
Sono stati arruolati 10.917 pazienti di entrambi i sessi, di età =55 anni (o =18 anni se diabetici) con coronaropatia accertata, frazione di eiezione ventricolare sinistra <40% e dimensioni dell’asse corto in telediastole >56 mm all’ecocardiografia. I pazienti dovevano avere un ritmo sinusale, con frequenza a riposo =60 battiti al minuto (bpm). Sono stati esclusi i pazienti che avevano avuto un infarto miocardico o una rivascolarizzazione coronarica nei 6 mesi precedenti, stroke o TIA nei 3 mesi precedenti, pazienti sottoposti ad interventi chirurgici o di rianimazione o altre patologie cardiache (sindrome bradicardia-tachicardia, blocco senoatriale, QT lungo congenito, blocco atrioventricolare completo, ipertensione grave o non controllata, sintomi di scompenso cardiaco grave [classe IV secondo NYHA]). Sono stati anche esclusi i pazienti in trattamento con potenti inibitori del CYP P450 3A4.
Dopo la ramdomizzazione sono state effettuate visite a 2 settimane, 1, 3 e 6 mesi ed in seguito ogni 6 mesi. I pazienti sono stati randomizzati a ivabradina 5 mg, incrementabile fino alla dose stabilita di 7,5 mg/2 volte/die o placebo in aggiunta ad un’appropriata terapia cardiovascolare (ß-bloccanti, ACE-inibitori o sartani, ipolipemizzanti, aspirina od altri farmaci antiaggreganti o antitrombotici).

L’end point primario composito era la mortalità per cause cardiovascolari, il ricovero ospedaliero per infarto miocardico acuto o per nuova insorgenza o peggioramento di scompenso cardiaco.
Diversi gli end point secondari: mortalità per tutte le cause, morte per cause cardiache (infarto, scompenso o conseguenze di procedure interventistiche cardiache) o cardiovascolari (morte cardiaca, morte per procedure interventistiche vascolari, decesso da presunta aritmia, stroke od altre cause vascolari, morte cardiaca improvvisa o per cause sconosciute), ricovero per nuova insorgenza o peggioramento di uno scompenso cardiaco, ricovero per infarto miocardico fatale e non fatale o per angina instabile, rivascolarizzazione coronarica, decesso per cause cardiovascolari.

La frequenza cardiaca media al basale era di 71,6 bpm, il follow-up medio è stato di 19 mesi.
L’ivabradina ha ridotto la frequenza cardiaca di 6 bpm a 12 mesi; la maggior parte dei pazienti (87%) stava assumendo ß-bloccanti durante lo studio. Sebbene non siano state evidenziate differenze significative tra chi assumeva o meno i ß-bloccanti, potrebbe essere utile fare un confronto diretto tra ivabradina ed un ß-bloccante per stabilire le somiglianze in termini di benefici e di tollerabilità. Al momento, tuttavia, un trial del genere potrebbe essere eticamente contestabile.

L’ivabradina non ha influenzato l’end point primario composito (HR 1,00; CI 95% 0,91-1,1; p=0,94). Eventi avversi gravi sono stati registrati nel 22,5% dei pazienti trattati rispetto al 22,8% del placebo (p=0,70). In un sottogruppo predefinito di pazienti con frequenza cardiaca =70 bpm, l’ivabradina non ha influenzato l’outcome composito primario (HR 0,91; 0,81-1,04; p=0,17), la mortalità cardiovascolare o il ricovero per nuova insorgenza o peggioramento dell’insufficienza cardiaca. Tuttavia, ha ridotto gli end point secondari di ricovero per infarto miocardico fatale e non fatale (0,64; 0,49-0,84; p=0,001) e rivascolarizzazione coronarica (0,70; 0,52-0,93; p=0,016).


La riduzione della frequenza cardiaca con ivabradina non migliora gli outcome cardiaci in tutti i pazienti con coronaropatia stabile e disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, ma potrebbe essere usata per ridurre l’incidenza degli esiti della coronaropatia in un sottogruppo di pazienti con frequenza cardiaca =70 bpm.



Il braccio randomizzato a placebo nell’ambito dello studio BEAUTIFUL era un’ampia coorte di pazienti con coronaropatia stabile e disfunzione del ventricolo sinistro. Su questo gruppo è stata condotta una sottoanalisi per testare l’ipotesi che un’elevata frequenza cardiaca a riposo al basale possa essere un marker per mortalità e morbilità cardiovascolare.
L’associazione tra frequenza cardiaca ed outcome cardiovascolari è stata analizzata per gruppi con frequenza cardiaca =70 bpm (n=2693) o <70 bpm (n=2745).
Dopo aggiustamento per le caratteristiche al basale, nei pazienti con frequenza =70 bpm è stato riscontrato un aumento del rischio di morte cardiovascolare (34%, p=0,0041), ricovero per insufficienza cardiaca (53%, p<0,0001), ricovero per infarto miocardico (46%, p=0,0066) e rivascolarizzazione coronarica (38%, p=0,037). Ad ogni incremento di 5 bpm è corrisposto un aumento di morte per cause cardiovascolari (8%, p=0,0005), ricovero per insufficienza cardiaca (16%, p<0,0001), ricovero per infarto miocardico (7%, p=0•052) e rivascolarizzazione coronarica (8%, p=0,034).
Secondo quest’analisi, l’incremento della mortalità cardiovascolare e dell’insufficienza cardiaca (soprattutto per gli eventi più precoci) è proporzionale all’incremento della frequenza >70 bpm, mentre la relazione è meno pronunciata per gli outcome coronarici.


In pazienti con coronaropatia e disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, l’aumento della frequenza cardiaca =70 bpm identifica i pazienti a maggior rischio di outcome cardiovascolari, con un effetto differente sugli esiti associati all’insufficienza cardiaca e ad eventi coronarici.


Commento

È auspicabile che le conoscenze relative ad ivabradina possano essere implementate dallo SHIFT trial (Systolic Heart failure treatment with the If-inhibitor ivabradine Trial) che sta studiando una tipica popolazione affetta da scompenso cardiaco. Ulteriori trial ed analisi di sottogruppi dei trial BEAUTIFUL e SHIFT potranno essere utili per identificare i pazienti che possono beneficiare di molecole come ivabradina che agiscono sul nodo del seno.

Conflitto di interesse

Lo studio è stato finanziato dalla ditta Servier che commercializza ivabradina.

Dottoressa Maria Antonietta Catania

Riferimenti bibliografici

Fox K et al. Ivabradine for patients with stable coronary artery disease and left-ventricular systolic dysfunction (BEAUTIFUL): a randomised, double-blind, placebo-controlled trial. Lancet 2008; 372: 807–16.

Fox K et al. Heart rate as a prognostic risk factor in patients with coronary artery disease and left-ventricular systolic dysfunction (BEAUTIFUL): a subgroup analysis of a randomised controlled trial. Lancet 2008; 372: 817-21.
Reil JC, Böhm M. BEAUTIFUL results—the slower, the better? Lancet 2008; 372: 779-80.


Contributo gentilmente concesso dal Centro di Informazione sul Farmaco della Società Italiana di Farmacologia - http://www.sifweb.org/farmaci/info_farmaci.php/

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