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La comunicazione medico paziente
Inserito il 04 dicembre 2008 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

La comunicazione medico-paziente si esprime con molti linguaggi e rappresenta un momento fondamentale del rapporto terapeutico.

Un tempo, la relazione medico-paziente era definita come “una storia di silenzio”, nella convinzione che “un buon paziente segue le direttive del medico senza fare obiezioni e senza porre domande”.
Oggi assistiamo ad un cambiamento radicale: dal modello paternalistico che improntava la relazione medico-paziente si sta andando verso una relazione paritaria.
Al termine “paziente” si è sostituito il termine “cliente” o addirittura “esigente”, poiché il paziente sottopone richieste precise e si aspetta risposte chiare e risultati certi.
In realtà, ogni domanda di cura racchiude non soltanto una semplice richiesta di aiuto tecnico, ma anche un’esigenza di relazione. Ignorare questa dimensione, significherebbe ridurre la medicina ad applicazione di una tecnica, trasformando il rapporto medico-paziente in una prestazione di servizi, senza tener conto che esso è in primo luogo attenzione ad una persona. Vi è una differenza sostanziale tra scienza medica e Medicina: la prima considera l’uomo come oggetto d’indagine , che diventa “Medicina” solo quando si rivolge all’uomo non più come oggetto, ma come soggetto. Una buona qualità nella comunicazione può avere effetti positivi a vari livelli: dall’aderenza al trattamento proposto, al miglioramento dei sintomi, allo stato emotivo.
Gli ostacoli maggiori alla comunicazione medico-paziente emergono quando si dimostra di non saper ascoltare il paziente, in tal caso emerge chiaramente l’insoddisfazione del paziente. La cattiva comunicazione, genera nel paziente un'insoddisfazione maggiore della carenza di competenze tecniche.

Possono ostacolare la comunicazione:

1) La fretta: determina una riduzione del tempo dedicato alla relazione. Il colloquio diventa essenziale ed il paziente. Lo interpreta come uno scarso interesse nei suoi confronti

2) La distrazione: la sensazione che il medico non stia ascoltando

3) Il linguaggio: l’uso di un linguaggio tecnico contraddice lo stesso concetto di comunicazione.

4) L’interruzione: l’abitudine ad interrompere il paziente fa trarre conclusioni spesso sbagliate.

5) L’esclusione: l’esclusione del paziente dalla conversazione tra 2 medici (sul suo caso), condotta in termini specialistici, a lui scarsamente o per nulla compresibili.

La malattia provoca, nel malato, una crisi di comunicazione,

1) con sé

2) con gli altri

3) col mondo.

Eppure essere malati vuol dire aver bisogno degli altri, dei loro servizi, delle loro parole oltre ad avere il malato un bisogno profondo di esprimersi.
Entrare in comunicazione con l’altro significa entrare in rapporto con un altro sistema chiamato Persona, che presenta alcune caratteristiche complesse e profonde che possiamo racchiudere in 4 fondamentali “variabili“:

1) BIOLOGICHE (età-sesso-razza)

2) SOCIOLOGICHE (cultura-famiglia-stile di vita)

3) PSICOLOGICHE (atteggiamento-immagine di sé-comunicazione-stati d’animo-conoscenza-memoria)

4) SPIRITUALI (credenze-religione-valori-filosofia di vita)

Da questo schema emerge la complessità della comunicazione, cioè quello scambio d’informazioni, emozioni, sentimenti tra almeno due persone, che avviene tramite i cinque sensi . E’ solo però quando si comunica se stessi e non ci si nasconde dietro un ruolo, che si realizza una vera comunicazione di vita.

La solitudine peggiore sta nel non poter comunicare se stessi a qualcuno. Questo bisogno di scambio di pensieri e di stati affettivi è insito nell’uomo; nasce dalla consapevolezza dei propri limiti e dal bisogno di cercare negli altri il completamento di se stessi.

Il processo comunicativo ha inizio quando una persona ne “incontra” un’altra; non ha importanza se la comunicazione è verbale o non verbale; ambedue le modalità possono costituire l’occasione di un breve incontro o l’inizio di un rapporto di comunicazione nel tempo.

Emerge così una duplice tipologia di comunicazione:

1) VERBALE

2) NON VERBALE

Infatti,oltre a comunicare un messaggio con parole, si può comunicare il “non detto”, attraverso altre modalità.

Le comunicazioni non verbali sono per lo più involontarie e quindi meno controllabili rispetto a quelle verbali.

Possiamo così distinguere i seguenti mezzi di comunicazione:

1) LA PAROLA: quale costante bisogno dell’uomo di capire e farsi capire, di uscire da sé e andare verso l’altro.

2) IL PARALINGUAGGIO: si parla lentamente, in modo incerto, irregolare, si modula la voce ecc. si urta contro i propri limiti.

3) IL CORPO: tensione muscolare, respirazione accelerata

4) IL VOLTO: in certe espressioni del volto affiora l’inconscio, la parte più profonda di sé.

5) LA POSIZIONE: in piedi, accanto, protesi, distanti.

6) L’UDITO: inteso come attenzione ai suoni non verbali, quali il sospiro, il silenzio,le pause ecc.

7) L’ATTEGGIAMENTO: fumare, mordersi le unghie, muoversi in continuazione.

8) I GESTI: si comunica anche con la gestualità in particolare con chi ha deficit neurosensoriali o handicap.

9) IL TATTO: il contatto fisico fra due persone può essere strumentale, oppure spontaneo ed affettivo (dalla mano sulla spalla per incoraggiare, alla stretta di mano, all’abbraccio d’accoglienza e condivisione di un momento difficile).

Il processo di comunicazione tuttavia non sempre ottiene il risultato sperato. Occorre innanzitutto tener presente l’oggetto dell’ascolto: il DOLORE.
L’atteggiamento fondamentale , nei confronti di una persona che soffre, non consiste nell’abbondanza di parole e consigli, ma nella disponibilità all’ascolto.
Al silenzio interiore, necessario all’ascolto, deve unirsi anche un linguaggio essenziale
Di condivisione che dovrebbe caratterizzare anche il rapporto terapeutico.
Una medicina attenta alla persona è anche una medicina del “curante” oltre che del “curato”!
Il grado d’informazione del paziente circa la sua malattia condiziona notevolmente la comunicazione. Il malato si rende conto dell’eventuale elusione delle risposte alle sue specifiche domande. Eppure il processo terapeutico, per quanto possibile, dovrebbe avere il malato come figura centrale e collaboratore principale delle modalità terapeutiche. Invece la tendenza a celare certe diagnosi, con l’aiuto dei familiari, si trasforma in una vera e propria “congiura del silenzio”, che costringe il malato a recitare la commedia della guarigione fino all’ultimo, senza la possibilità di esprimere le proprie ansie e paure. Non c’è niente di peggio delle briciole d’informazione, date con gesti, parole contradditorie, occhiate tra parenti, amici ed operatori sanitari. In ospedale come in casa, parole e bisbigli attraversano le pareti della camera; l’usanza del silenzio è spesso più crudele della verità! Inoltre spesso la sensazione che il paziente non si accorga di nulla, è più una sensazione desiderata per coloro che lo circondano, che un evento reale. Spesso non ascoltiamo ciò che ci viene detto, presumendo già di saperlo; udiamo solo ciò che vogliamo ed ascoltiamo solo ciò che coincide coi nostri obiettivi, cessando di ascoltare non appena abbiamo “classificato” l’interlocutore. Tentazioni queste che sono anche del malato, il cui comportamento è peraltro condizionato dal tipo di risposta che riceve a fronte della sua richiesta d'aiuto.

Possiamo così distinguere diverse tipologie di risposta (da parte del medico):" :

1) RISPOSTA VALUTATIVA: tende ad indicare all’interlocutare ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare.

2) RISPOSTA INTERPRETATIVA: tende a dare una propria spiegazione per aiutare la persona a comprendere ciò che sta vivendo.

3) RISPOSTA DI SUPPORTO: vuole offrire un incoraggiamento, una consolazione all’interlocutore per ridurre la sua ansia.

4) RISPOSTA INVESTIGATIVA: tende a raccogliere ulteriori informazioni per approfondire ulteriormente il problema.

5) RISPOSTA DI SOLUZIONE IMMEDIATA DEL PROBLEMA: vuole offrire consigli e suggerimenti alternativi per risolvere velocemente il problema.

6) RISPOSTA EMPATICA: è il risultato di un processo d’ascolto attivo, che presuppone la capacità di mettersi dalla parte del malato e della malattia.

Fra tutte, solo la risposta empatica permette a chi soffre di sentire intorno a sé una comprensione ed una risposta coerenti al suo bisogno fondamentale di parlare di sé.
D’altra parte, accompagnare qualcuno non vuol dire precederlo, indicargli la strada, ma piuttosto camminare al suo fianco, stargli accanto, lasciandolo libero di scegliere la sua strada ed il ritmo del suo passo.

Al termine di questo percorso il malato da “patiens” potrà così divenire “agens”, cioè persona che, pur malata, sarà sempre capace di dare ed il medico avrà da un lato elaborato i suoi limiti umani, dall’altro i limiti della professione, sfuggendo così alla subdola convinzione che esista la possibilità di una “onnipotenza terapeutica”
o di un totale distacco dalla sofferenza, come fosse esclusiva sofferenza altrui!

Quali allora le possibili strategie da adottare:

1) PERSONALIZZARE L’ASSISTENZA

Personalizzare l’assistenza vuol dire considerare unico ogni paziente E dargliene la sensazione. Ma come fare quando ogni giorno si vedono decine di pazienti ? Un modo sta nel considerare la persona che si ha di fronte come fosse l’unica della giornata (senza pensare al paziente prima né a quello dopo).

2) CONSIDERAZIONE

Considerare il paziente come noi stessi. Gandhi diceva: “Tu ed io siamo una cosa sola, non posso farti del male senza ferirmi”. E’ un atteggiamento rivoluzionario rispetto a quello di porsi di fronte al paziente come un datore di servizi.
Dunque nessuna preferenza né distinzione (tra patologie più o meno interessanti, persone collaboranti o resistenti), ma tutti i pazienti hanno lo stesso diritto alla mia
attenzione. Il medico non può aspettarsi che sia il paziente a comportarsi in modo “ideale”; sta al medico prendere l’iniziativa che faccia avvertire il suo interessamento ed il desiderio di essergli d’aiuto. Questo atteggiamento facilita il rapporto di fiducia facendo scaturire una reciprocità ed una conseguente alleanza terapeutica.
Premessa a tutto questo è la capacità d’ascolto, che va ben oltre il semplice udire.

Infatti se l’UDIRE si esaurisce a livello della funzione uditiva e si attua anche senza la volontà della persona, ASCOLTARE significa invece percepire non solo le parole, ma anche i pensieri, lo stato d’animo, il significato personale e profondo del messaggio trasmesso. Per ASCOLTARE, occorre staccarsi dai propri interessi, dai propri schemi mentali, per introdursi gradualmente e con rispetto nel mondo dell’altro. Perché cresca una buona capacità d’ascolto è necessario un atteggiamento spesso difficile da mettere in pratica, pur rappresentando una condizione indipensabile per l’ascolto: si tratta della sospensione del giudizio, che significa astenersi da valutazioni di approvazione o disapprovazione, da affrettate conclusioni.

L’ascolto richiede di tacere; soprattutto di far tacere la propria comunicazione intrapsichica, cioè il nostro vissuto, che colui che parla ridesta in noi.
Oltre al silenzio di chi ascolta, deve esserci spazio anche per il silenzio dell’altro, poiché a volte, col suo silenzio vuole dirci che ha bisogno di riflettere o che si sente bloccato per qualcosa che ha colto in noi o nell’ambiente, oppure vuole semplicemente il nostro aiuto a parlare (ad esempio ponendo qualche domanda).


Essere al servizio del malato, vuol dire prendersi carico di una persona, interessarsi a lei, comunicare, ascoltare, comprendere. La persona malata si attende da quelli che lo curano non soltanto un farmaco, un atto terapeutico, la salute, ma piuttosto un’assistenza che sia destinata a lei come Persona. Una relazione d’aiuto deve pertanto prevedere i seguenti interventi:

1) aiutare la persona a sviluppare una relazione di fiducia; il malato non può riporre la sua fiducia nella tecnica e nella medicina, ma nelle persone che lo curano

2) aiutare la persona a mantenere il controllo della sua vita

3) aiutare la persona a conservare la stima di sé.

Sono questi gli interventi necessari affinché la persona, anche quando il ritorno al benessere fisico si fa sempre più incerto, non cada nella disperazione, lasciandosi andare al proprio destino.
Occorre superare l’idea che ci sia un universo di “sani” che si occupa di un universo di “malati”.
In un recente romanzo italiano, dal titolo “Cosa sognano i pesci rossi”(ove i pesci rossi sono i pazienti chiusi negli ambienti vitrei di un reparto di Terapia Intensiva), l’autore (Direttore di un Reparto di Anestesia e Terapia Intensiva) descrive la figura di un medico: “….chirurgo di discrete capacità tecniche, ancora in fase di crescita professionale; uno di quei pochi medici che se gli venisse posta la domanda classica:- perché hai studiato medicina?- potrebbe sinceramente rispondere: Perché voglio guarire la gente.” Gli piace la gente, gli piace la vita e la gente è vita. Gli piace ascoltare la gente ed è sempre disponibile per tutti. Ogni malato che non guarisce non è una sconfitta personale, è una sconfitta della vita e non è certo un asceta o un santo e nemmeno un missionario. Gli piace curare le persone….sembra quasi incredibile!

Maria Teresa Francavilla

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