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L'angioplastica migliora la sopravvivenza nei pazienti con coronaropatia stabile? |
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Inserito il 02 luglio 2007 da admin. - cardiovascolare - segnala a:
La terapia medica ottimale appare essere efficace come l'angioplastica percutanea nella coronaropatia stabile.
In questo studio, denominato COURAGE, sono stati arruolati 2.287 pazienti (età media 62 anni, 15% donne, circa un terzo diabetici) affetti da coronaropatia stabile (stenosi coronarica con quadro clinico di angina pectoris classica oppure stenosi del 70% con evidenza obiettiva di ischemia). I partecipanti sono stati randomizzati ad angioplastica coronarica percutanea (PCI) e terapia medica ottimale oppure sola terapia medica. Vennero esclusi soggetti con marcata ischemia allo stress test e quelli con frazione di eiezione inferiore al 30%. Nel gruppo PCI vennero posizionato uno o più stent nel 94% dei casi (solo nel 3% si trattava di stent medicati, nei rimanenti lo stent era di tipo standard). Il follow-up medio fu di 4,6 anni (massimo 7 anni). Circa il 9% dei soggetti risultò persa al follow-up. Il colesterolo LDL medio raggiunto al termine dello studio nei due gruppi fu al di sotto della soglia suggerita dalle linee guida per i pazienti a rischio elevatissimo (70 mg/dL). L'end-point primario dello studio era un outcome composto da morte e infarto miocardico e risultò simile nei due gruppi: 19,0% nel gruppo PCI e 18,5% nel gruppo terapia medica. Una frequenza simile ebbero anche end-point secondari come l'ospedalizzazione per sindrome coronarica acuta e lo stroke. Nel gruppo PCI si notò un minor numero di rivascolarizazioni (21% vs 33%) e di soggetti liberi da angina a 1 e a 3 anni, ma non a 5 anni (74% vs 72%).
Fonte: Boden WE et al. for the COURAGE Trial Research Group. Optimal medical therapy with or without PCI for stable coronary disease. N Engl J Med 2007 Apr 12; 356:1503-1516.
Commento di Renato Rossi
L'angina stabile può essere trattata con terapia medica, angioplastica oppure by-pass [2]. L'angioplastica con posizionamento di stent viene sempre più proposta, oltre che nelle sindromi coronariche acute, anche nel trattamento della coronaropatia stabile. Tuttavia lo studio COURAGE probabilmente porterà molti a criticare questa propensione in quanto dimostra che a 5 anni non ci sono vantaggi sull'end-point primario (morte e infarto miocardico). A rigore si dovrebbe quindi concludere che la terapia medica ottimale, nella cardiopatia ischemica stabile, funziona come l'angioplastica. Anche la percentuale di ricoveri per sindrome coronarica acuta e di ictus risultò simile tra i due gruppi. La PCI sembra ridurre il numero di rivascolarizzazioni ed avere un effetto più pronunciato sul sintomo angina ma bisogna ricordare che questi erano end-point secondari, quindi da valutare con prudenza. E' probabile che i detrattori della strategia aggressiva, che già in passato hanno criticato l'abitudine di sottoporre a PCI pazienti stabili, facciano pesare anche il fatto che nella quasi totalità dei soggetti sottoposti a PCI venne impiantato uno stent bare-metal: alla luce delle attuali evidenze di letteratura, qualcuno ipotizzerà che, se si fosse impiantato uno stent medicato, gli esiti, nel gruppo PCI, avrebbero potuto essere peggiori. Ma vi sono altri punti critici che meritano di essere sottolineati e che rendono più difficile l'interpretazione del trial. Per esempio un editorialista fa notare che meno del 10% dei pazienti screenati rispondeva ai criteri di inclusione del trial e che meno del 75% di essi venne poi effettivamente reclutato: quanto sono rappresentativi della popolazione reale i soggetti dello studio COURAGE? Un altro punto che merita di essere richiamato è che si trattava senz'altro di soggetti estremamente motivati, molto aderenti alle terapie prescritte e ai consigli loro forniti circa la dieta e l'attività fisica, tant'è che venne raggiunto il target di LDL colesterolo inferiore a 70 mg/dL. Anche questo è un aspetto che potrebbe influire sulla effettiva trasferibilità dei risultati nella popolazione reale. Circa il 9% dei pazienti furono persi al follow-up. In questi casi molti consigliano di effettuare delle sensitivity analyses prevedendo scenari diversi (per esempio ipotizzando che tutti i soggetti persi in un gruppo abbiano avuto l'outcome e quelli dell'altro gruppo non l'abbiamo avuto o viceversa, o ancora che nessuno o tutti abbiano avuto l'outcome). Gli autori invece si sono limitati ad includere nell'analisi finale i dati disponibili fino al momento della perdita del contatto col paziente. Lasciamo agli esperti di metodologia l'ultima parola su questa scelta (anche perchè il problema dei drop-out è ancora controverso) ma è probabile che essa non abbia influito in modo determinante sui risultati dello studio. Rimane il fatto che il bicchiere dello studio COURAGE appare mezzo vuoto o mezzo pieno a seconda del punto di vista: se è vero che la terapia medica ottimale sembra altrettanto efficace della PCI nei coronaropatici stabili rimangono dubbi sulla trasferibilità alla pratica quotidiana. Comunque gli autori citano una metanalisi che supporta i risultati del loro studio [1], per dire che questi dati non dovrebbero stupire. Tuttavia la letteratura ci ha ormai abituati a bruschi cambi di rotta con trials contro trials, metanalisi contro linee guida, trials contro metanalisi [3]. Lo studio COURAGE non fa che confermare cose già note, ma è giocoforza chiudere con un prudente "to be continued". Una conclusione però sembra si possa, in ogni caso, trarre: vale la pena di tentare inizialmente, nei pazienti stabili, una terapia medica ottimale riservando la PCI ai casi che non rispondono. Una scelta che non sempre viene rispettata in un mondo ove sempre più si cerca di fare di tutto e anche oltre.
Bibliografia 1. Katritsis DG et al. Percutaneous coronary intervention versus conservative therapy in nonacute coronary artery disease: a meta-analysis. Circulation 2005; 111:2906-2912 2. Petticrew M et al. Effective management in stable angina. Qual Health Care; 1998; 7: 109-116 http://qshc.bmj.com/cgi/reprint/7/2/109.pdf 3. Ricerche cliniche, metanalisi, linee guida: a chi credere? Bollettino di Informazione sui Farmaci 2006, numero 5, pag. 217-221.
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