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Gli screening salvano la vita?
Inserito il 17 maggio 2007 da admin. - scienze_varie - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

La riduzione della mortalità specifica e non di quella generale deve indurre a considerare criticamente gli apparenti benefici di uno screening.

Un problema importante degli screening in generale è di riuscire a dimostrare una riduzione della mortalità, perchè solo in questo caso possiamo dire che il gioco vale la candela. Ovviamente non basta dimostrare che con lo screening, dal momento della diagnosi, si ha una maggior sopravvivenza rispetto alla diagnosi fatta quando la malattia si rende clinicamente manifesta, perchè in questo caso potrebbe trattarsi solo di "anticipazione diagnostica". Gli unici mezzi che abbiamo per dimostrare una riduzione della mortalità sono gli studi clinici randomizzati e controllati o RCT . Però quando parliamo di screening vi è un altro aspetto da considerare: quale tipo di mortalità si deve riuscire a ridurre? Quella totale oppure quella specifica legata alla malattia che si vuol screenare? In molti degli studi eseguiti finora sugli screening oncologici (mammografia, ricerca del sangue occulto fecale) e non oncologici (per esempio screening degli aneurismi dell'arta addominale) si è riusciti a dimostrare una riduzione della mortalità specifica, ma non della mortalità totale. Da cosa può dipendere questo risultato ? Una delle ipotesi è che negli studi si verifichi un'errata attribuzione delle cause di morte: può succedere che nel gruppo non sottoposto allo screening decessi dovuti a cause diverse vengono attribuiti alla malattia screenata mentre nel gruppo screenato decessi dovuti a complicanze della terapia o del trattamento (infezioni, embolie polmonari post-chirurgiche, complicanze da chemioterapia, ecc.) non vengano attribuiti alla malattia, ma classificati in altro modo. Si realizza quindi una divaricazione per cui alla riduzione della mortalità specifica non corrisponde una riduzione della mortalità totale. Secondo alcuni una riduzione nella mortalità specifica non dovrebbe essere considerata una prova forte di efficacia dello screening quando la mortalità totale è la stessa o è più alta nel gruppo screenato. I trials di screening sono però più complicati di quanto non si pensi. Secondo un'altra corrente di pensiero infatti gli studi disegnati per dimostrare un miglioramento della mortalità totale come end-point primario richiedono un numero molto elevato di soggetti, un follow-up lungo e spese quasi insostenibili, per cui sarebbero molto difficili da praticare, soprattutto se la malattia screenata rende conto solo di una piccola parte della mortalità totale. Tuttavia possiamo giustificare programmi di screening, costosi sia per gli individui che per la comunità, se vi sono incertezze circa la loro utilità? Se non vi è una riduzione della mortalità totale, ma solo di quella specifica dov'è l'utilità reale per i pazienti? Non si realizza semplicemente uno shift dalla una morte dovuta alla malattia screenata verso una morte dovuta ad un'altra malattia? La medicina preventiva di per sè realizza una qualche forma di violenza perchè si rivolge non a persone malate che cercano un aiuto da parte dei medici, ma a soggetti sani (o comunque fino a quel momento sani) e li sottopone ad accertamenti (anche invasivi) alla ricerca di una qualche malattia che non si sa di avere. Una pratica intrusiva di questo tipo può avere giustificazioni solo se esistono prove forti della sua reale efficacia, vale a dire, in soldoni, se siamo sicuri di far vivere di più le persone. Altrimenti gli aspetti negativi dello dello screening finiranno per soverchiare qualsiasi altro tipo di considerazione.

Renato Rossi

Bibliografia

1) http://www.bmj.com/cgi/eletters/330/7494/750#105032
2. Black WC et al. J Natl Cancer Inst 2002; 94:167-173
3.Juff HC & Tannock IT. J Natl Cancer Inst 2002; 94: 156-157


Commento di Luca Puccetti

La problematica degli screening ha risvolti scientifici e risvolti sociali e psicologici. Sostanzialmente gli screening di popolazione partono dall'assunto che scoprire una determinata malattia prima possa determinare maggiori vantaggi. Sorgono già le prime domande: quali vantaggi e per chi e a quale prezzo? Gli screening non sono avversati per lo più dai politici e nemmeno dalle assocazioni dei pazienti, (che anzi spesso li sostengono anche oltre ogni logica scientifica) e nemmeno dalla maggior parte dei medici in quanto sussitono commistioni di interesse economico, e di carriera che rendono per lo più inviso chi si mette di traverso. L'idea imperante è che "prevenire è meglio che curare". A sostenere questo slogan, semplice, diretto, di facile presa, apparentemente basato su una sorta di buon senso sono schiere di politici, rappresentanti dei malati, medici cultori di determinati settori. Chi obietta è mal visto, basti ricordare la polemica sulla revisione dello screening del cancro al seno e la polemica furiosa che ne scaturì. Ci sono molti altri esempi come quello dell'aneurisma dell'aorta addominale in maschi a rischio oppure dell'hcv in pazienti a rischio o lo screening mediante misura del psa. Da un punto di vista generale la riduzione della mortalità generale appare l'end point per antonomasia, ma ammetterei anche outcomes forti quali ad esempio una migliore qualità di vita, una riduzione delle ospedalizzazioni, delle giornate di lavoro perse e valuterei anche i cosiddetti outcomes intangibili. Purtroppo in molti casi lo screening non si accompagna affatto ad un miglioramento di tali parametri. Se prendiamo ad esempio lo screening dell'aorta addominale viene da chiedersi quale sia il miglioramento della qualità di vita in una condizione del tutto asintomatica (fatti salvi gli aneurismi infiammatori). Non certamente la difficile convivenza con la consapevolezza di dover vivere ogni giorno con una sorta di bomba nell'addome, pronta ad esplodere, ma che, magari, non esploderà mai. E così vale per molti altri esempi quali le operazioni inutili per cancri biochimici della prostata che nessun parametro può predire se diventeranno tumori clinici o le infezioni da hcv in pazienti anziani in cui non è possibile ed indicato alcun trattamento "eziologico" specifico. Perché nessuno si chiede quali siano i costi non solo economici, ma anche psicologici e sociali degli screening? A parte chi lo fa per mero interesse, il principale motivo risiede nella mancanza del senso del limite. Un limite che da un parte viene sempre più spostato, ma mai raggiunto. Lo spostamento di tale limite da una parte conferisce l'illusione della sconfitta della malattia, della sofferenza e della morte dall'altra costa risorse sempre maggiori che rischiano di mettere a repentaglio la sostenibilità del servizio sanitario pubblico. Le linee guida internazionali sono purtroppo spesso inficiate da pesanti condizionamenti di soggetti che hanno interesse a far identificare dei "target mito". Quanto più bassa la pressione meglio è, quanto più basso il colesterolo meglio è. Queste campagne sono servite a "sensibilizzare" i cittadini verso il concetto di rischio, ma ora nelle società avanzate il problema è diventato l'opposto, un eccesso di medicalizzazione ed un infinito rincorrere target sempre più ardui ed identificati sulla base di studi spesso realizzati su gruppi ideali e non reali di pazienti. Occorre invece invertire questo andazzo e tornare a ragionare in termini di interventi a maggior efficacia. Non quanto più bassa la pressione meglio è, ma identificare un target minimo da raggiungere e non solo nel 10% dei casi, ma nel 90% dei casi. Il razionale che sostiene tale posizione è lo stesso di quello che deve orientare il giudizio sugli screening.

Commento di Clemetino Stefanetti

E’ utile diagnosticare una malattia solo se abbiamo modo di guarirla o comunque di cambiarne in meglio la storia naturale. La diagnosi precoce in se non giustifica un programma di screening. È utile diagnosticarla precocemente solo se queste due evenienze sopra diventano significativamente più probabili. Non serve, anzi è dannosa, la diagnosi precoce di una malattia che non può essere curata o guarita. Infatti, poiché si anticipa la diagnosi, si ha aumento di sopravvivenza anche senza modificare la storia naturale della malattia (lead time bias). Inoltre con lo screening si trova una proporzione maggiore di casi ad evoluzione lenta, di solito meno aggressivi, e con una probabilità di sopravvivenza maggiore (length bias). Gli screening oncologici per i quali l’efficacia è sufficientemente provata, ma non senza controversie residue, riguardano il cervicocarcinoma, il tumore della mammella e il tumore del colon retto. Finora non sono disponibili evidenze sufficienti per lo screening del tumore della prostata, a dispetto del largo uso inappropriato che si fa del test del PSA, per lo screening del tumore del polmone, a dispetto della disponibilità di un esame molto sensibile con la CT spirale, né per altri tumori.
Ogni intervento sanitario ha o può avere effetti negativi. Cercare una malattia, in assenza di sintomi, con mezzi diagnostici sempre più sensibili significa inevitabilmente aumentare il numero di casi falsi positivi. Dei falsi positivi preoccupano non solo i costi economici e il sovraccarico dei servizi diagnostici derivante da esami che a posteriori si riveleranno inutili, ma ancora di più i costi personali (danni fisici da esami invasivi, ansia in attesa della diagnosi, stigma di anormalità e di alto rischio, ridotta adesione ad inviti successivi). Ecco perché si deve mantenere la massima attenzione alla specificità. Più il test è sensibile maggiore sarà anche il numero di casi sovradiagnosticati, quelli cioè che non sarebbero altrimenti arrivati all’osservazione clinica a causa di un decorso molto lento e asintomatico o di una regressione spontanea. Il fatto che una neoplasia regredisca e guarisca spontaneamente viene normalmente considerato un’evenienza eccezionale, mentre – ad esempio – avviene in oltre la metà dei casi di carcinoma in situ della cervice uterina. L’esempio dell’elevata sovradiagnosi di tumore della prostata mostra quanto sia importante una chiara comprensione della storia naturale di un tumore e il completamento degli studi di efficacia prima di proporre uno screening quale intervento di popolazione.
È ampiamente provato che se non si adottano misure attive per un coinvolgimento della popolazione e non si pone attenzione specifica all’accessibilità, finiscono per utilizzare lo screening solo una parte dei beneficiari potenziali. Tale parte, paradossalmente, è costituita da persone con rischio inferiore alla media e già molto attente alla loro salute, mentre tendono a rimanere esclusi coloro che maggiormente ne beneficerebbero (screening bias).
L’uso della mortalità per malattia specifica come end point primario espone l’analisi dello screening a 2 forme di bias seri:

1) Sticky-diagnosis bias (vizio di diagnosi complessa) dove le morti di incerta causa nel gruppo di screening sono erroneamente attribuite al cancro specifico o le morti nei controlli sono erroneamente attribuite ad altre cause. Questo bias favorisce il gruppo di controllo.

2) Slippery-linkage bias (vizio di associazione ingannevole) dove le morti dovute a interventi diagnostici o terapeutici che sono promossi dallo screening Questo bias tende a favorire il gruppo dello screening.
Se ci si riferisce alle morti per tutte le cause si evitano questi bias, ma occorre un campione di persone enorme. Ad esempio se si assume una potenza dell’80% e un tipo di errore a una taglia del 2,5% avremo che per uno studio che come end point sia la morte per tumore avremo una popolazione di 150.000 mentre uno studio con end point primario tutte le cause di mortalità avremo un campione di 4,1 milioni. L’effetto netto di questi bias spesso favorisce gli screening in quanto lo slippery linkage bias è più importante che lo sticky diagnosi bias.

per approfondire l'articolo esteso: http://www.pillole.org/public/aspnuke/articles.asp?id=103

Referenze

1. J Natl Cancer Inst. 2002 Feb 6;94(3):167-73. http://jnci.oxfordjournals.org/cgi/reprint/94/3/167.pdf
2. Lancet. 2000; 355: 1757-70.

Commento di Marco Grassi

Quale attributo definisce l’efficacia di uno screening? Cos’è veramente rilevante per il soggetto sano cui noi richiediamo di sottoporsi a test diagnostici?
Cochrane [1] definisce il concetto di efficacia come la capacità di cambiare la storia naturale della malattia e dei sintomi in senso positivo. Detta così sembra l’ennesima sconcertante ovvietà. In realtà quando parliamo di efficacia dobbiamo distinguere l’efficacia teorica (quella che gli anglosassoni definiscono efficacy) e che è in genere derivata da studi clinici realizzati in condizioni ideali, dalla efficacia pratica sul campo, ossia quella valutata in condizioni meno ideali e più vicine alla normale pratica clinica (effectiveness).
Quando leggiamo la letteratura anglosassone, traduciamo efficacy ed effectiveness con efficacia, ma a quanto pare sono due concetti di efficacia diverse. Quale dobbiamo tenere in maggiore considerazione?
La valutazione dell'efficacia teorica si basa, oltre che sulla ragionevolezza del meccanismo biologico attuato con lo screening, sui risultati di alcuni studi clinici condotti nelle migliori condizioni ideali. L’efficacy è naturalmente un pre-requisito perchè vi sia anche effectiveness, ma quest’ultima non è automatica e deve essere dimostrata anch’essa. Infatti un programma di screening che si sia dimostrato efficacy non implica necessariamente che sia automaticamente capace di produrre risultati in ogni situazione. Ad esempio nei trial l’adesione è molto più alta rispetto a quanto accade nella pratica, così come l’accettazione dei test. Altro punto fondamentale che può sensibilmente ridurre l’effectiveness sono le diverse capacità e abilità degli operatori di utilizzare il test di screening o di eseguire i test di approfondimento. Un conto è eseguire un numero limitato di esami di secondo livello in una clinica universitaria da parte di uno specialista particolarmente addestrato, un altro è eseguirne molti di più da parte di un team di specialisti dalle diverse capacità tecniche.

Referenze

[1] Cochrane A. Efficienza ed efficacia. Riflessioni sui servizi sanitari. Pensiero scientifico editore 1999

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