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Inibitori di pompa protonica e rischio di fratture |
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Inserito il 05 agosto 2007 da admin. - gastroenterologia - segnala a:
L'uso di inibitori di pompa per lunghi periodi e a dosi elevate potrebbe essere associato ad un aumento del rischio di fratture.
In questo studio caso-controllo è stato usato il database General Practice Research considerando i soggetti in trattamento con inibitori di pompa protonica (PPI) con più di 50 anni e i non users. I casi includevano tutti i pazienti con frattura dell'anca. I controlli sono stati scelti paragonandoli ai casi per sesso, anno di nascita, data index, ecc. E' stato condotto anche uno studio caso-controllo analogo considerando l'uso di H2 antagonisti. Lo studio ha valutato 13.556 casi di fratture e 135.386 controlli. L'odds ratio aggiustata per fratture dell'anca associate ad un trattamento di 1 anno o più lungo con PPI era di 1,44 (IC95% 1,30-1,59). Il rischio era più elevato per prescrizioni prolungate e ad alte dosi (OR aggiustata 2,65; IC95% 1,80-3,90). Gli autori concludono che la terapia a lungo termine con PPI, soprattutto per dosi elevate, è associata ad un aumento del rischio di frattura dell'anca.
Fonte: Yang Y-X et al. Long-term Proton Pump Inhibitor Therapy and Risk of Hip Fracture JAMA. 2006 Dec 27;296:2947-2953.
Commento di Renato Rossi
Gli inibitori di pompa protonica riducono la produzione di acido cloridrico e questo interferisce con l'assorbimento del calcio. Tuttavia questi farmaci agiscono anche inibendo le pompe protoniche vacuolari degli osteoclasti, il che comporta una riduzione del riassorbimento osseo e quindi, almeno in teoria, si dovrebbe avere un'azione protettiva contro le fratture. Lo studio recensito in questa pillola farebbe pensare che il primo meccanismo sia prevalente, tuttavia va considerato che si tratta di uno studio caso-controllo. Come si è più volte ripetuto questo tipo di studi produce evidenze deboli in quanto non è mai possibile correggere tutti i vari fattori di confondimento che possono minare le conclusioni perchè i gruppi non sono mai randomizzati. Un altro studio caso-controllo [1] su quasi 125.000 casi (soggetti con frattura) e oltre 373.000 controlli (soggetti paragonabili ai casi ma senza fratture) suggerisce che il rischio fratturativo associato all'uso dei PPI è presente ma probabilmente di significato clinico limitato: per tutte le fratture vi è un aumento del 18% (IC95% 12%-43%) e per quelle dell'anca del 45% (IC95% 28%-65%). Al contrario l'uso degli H2 bloccanti era associato ad una riduzione del rischio, sia di tutte le fratture (12%; IC95% 5%-18%) che di quelle dell'anca (31%; IC95% 14%-43%). Come si vede quindi due studi dal disegno simile hanno prodotto evidenze contrastanti per gli H2 bloccanti e concordanti per i PPI. D'altra parte proprio i PPI sono farmaci di largo impiego e spesso è necessario usarli per lunghi periodi, per esempio nei cardiopatici anziani in trattamento con aspirina oppure nei soggetti con malattia da reflusso gastro-esofageo quando alla sospensione del trattamento i sintomi recidivano. Come consigliano gli autori vale la pena di considerare la prescrizione di supplementi di calcio negli anziani che devono essere trattatti per lunghi periodi con PPI. Un'altra strategia potrebbe essere quella di usare le dosi più basse necessarie a controllare i sintomi. Referenze
1. Vestergaard P et al. Proton pump inhibitors, histamine H2 receptor antagonists, and other antacid medications and the risk of fracture. Calcif Tissue Int 2006 Aug; 79: 76-83
Commento di Marco Grassi
L'articolo di JAMA riporta i risultati di uno studio caso-controllo da cui risulta che la prolungata assunzione di IPP è associata ad un aumento di rischio di fratture di femore (OR di 1.44 con intervallo di confidenza 1.3-1,59). Gli studi osservazionali, come è questo studio caso-controllo, sono generalmente accettabili come studi di "generazione di ipotesi" piuttosto che studi che dimostrano una relazione causale. Cioè possiamo dire, nello specifico, che vi è una associazione fra l'assunzione prolungata di IPP e un aumentato rischio di incorrere in fratture di femore ma sarebbe azzardato ( oltre che metodologicamente scorretto) dire che l'assunzione prolungata di IPP "provoca" fratture di femore. Tuttavia la forza della associazione può essere tanto ampia da poter essere sufficiente a indicare la "causalità" cioè la verosimile certezza di relazione causa-effetto. Quanto grande deve essere il RR (rischio relativo) o l'OR ( odds ratio) per impressionarci quando esaminiamo un articolo che parla di potenziali effetti nocivi di un farmaco, del rischio connesso ad una pratica terapeutica, della osservanza o meno ad un particolare stile di vita o di uno stile dietetico? Le Odds Ratio (OR) o i Rischi Relativi (RR) superiori a 1 indicano che c'è un aumentato rischio dell'esito sfavorevole associato alla esposizione ( in questo caso la frattura associata alla esposizione ai PPI). Poichè gli studi di coorte e, anche in misura maggiore, gli studi caso-controllo sono gravati da molti bias un OR molto elevato ha maggiori probabilità di essere vero e non il frutto dei fattori di confondimento o del semplice caso. Ma quanto elevato? In una comunicazione personale citata da Sackett [1] il professor Richard Doll ( eminente epidemiologo inglese) ha riportato che " E' quasi impossibile fissare un livello di rischio così elevato che i risultati di uno studio epidemiologico ben condotto dovrebbero necessariamente escludere i fattori di confondimento. Mi ricordo di aver detto che eccessi pari a 20 volte sono di per se stessi quasi sufficienti per indicare la causalità." Ma raramente troviamo valori così elevati di RR o OR, più spesso ci troviamo di fronte valori che ricadono nell'area di massima incertezza. I testi di epidemiologia e di statistica riportano tabelle per interpretare RR e OR di studi osservazionali che possono essere utili per una valutazione di ciò che stiamo leggendo. Nella tabella che segue si propone uno schema per interpretare l'attendibilità dell'RR o dell'OR negli studi di tipo osservazionale.
L'associazione ( OR 1.44 ) non è molto grande e potrebbe anche essere dovuta al caso o a fattori confondenti sebbene vi sia una plausibilità biologica ( la diminuita acidità gastrica può interferire con l'assorbimento del calcio) e una relazione dose/risposta. In base a questi risultati, tuttavia, gli autori dello studio suggeriscono che dovremmo raccomandare supplementi di calcio e vitamina D e forse anche sottoporre a densitometria ossea i pazienti in terapia prolungata con IPP ad alte dosi come se l'aumentato rischio di fratture fosse dato per certo.
Referenze
1. Sackett D. et al. Evidence -Based Medicine. La medicina nella pratica clinica. Momento Medico 2001
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