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Beta Bloccanti nell' ipertensione: la fine di un era?
Inserito il 22 ottobre 2005 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Contrordine: i betabloccanti non dovrebbero più essere gli antipertensivi di prima scelta.

Sempre più difficile orientarsi nel labirinto degli studi sui farmaci antipertensivi.
Per valutare l'efficacia dei betabloccanti nell'ipertensione primaria gli autori di questa meta-analisi hanno identificato 7 RCT, per un totale di 27.433 pazienti, in cui i betabloccanti sono stati paragonati a placebo o non trattamento e altri 13 trials, per un totale di 105.951 pazienti, in cui il paragone era tra betabloccanti e altri antipertensivi.
Rispetto al placebo o al non trattamento il rischio di stroke era ridotto dai betabloccanti del 19% (circa metà di quanto ci si sarebbe aspettato, sottolineano gli autori).
Rispetto agli altri antipertensivi, invece, l'uso di betabloccanti era associato ad un rischio di ictus più elevato del 16% (p = 0,009) e ad un aumento della mortalità totale del 3% (dato non significativo, p = 0,14).
Gli autori concludono che i betabloccanti dovrebbero essere usati come farmaci di scelta solo in alcune categorie di pazienti ipertesi (pregresso infarto miocardico, scompenso cardiaco, presenza di aritmie, iperattività adrenengica o livelli di stress molto evidenti) mentre negli altri casi si dovrebbe iniziare con un diuretico, un aceinibitore o un calcioantagonista, che hanno documentazioni di efficacia migliori.
Un editorialista sottolinea che comunque i betabloccanti, quando si ritiene di sostituirli con un altro antipertensivo, non dovrebbero essere sospesi bruscamente ma con una titolazione lenta.

Fonte: Lindholm LH et al. Should beta blockers remain first choice in the treatment of primary hypertension? A meta-analysis
Lancet . Pubblicato online il 18 ottobre 2005. DOI: 10.1016/S0140-6736(05)67573-3


Commento di Renato Rossi

Un caposaldo della terapia antipertensiva, i betabloccanti, sembra ricevere da questa meta-analisi un duro colpo ed i medici faticano sempre più a tenere il passo dei nuovi studi, in una babele continua di risultati che contraddicono raccomandazioni e linee guida consolidate e studi precedenti.
In due meta-analisi pubblicate dal Lancet nel dicembre del 2000 si raggiungevano conclusioni per certi versi opposte. Nella prima [1] si evidenziava l'inferiorità dei calcio-antagonisti rispetto agli altri trattamenti antipertensivi, nella seconda, che prendeva in considerazione praticamente gli stessi studi, si concludeva che i calcioantagonisti sono efficaci come gli altri farmaci [2].
Le stesse linee guida internazionali forniscono raccomandazioni divergenti. Quelle americane considerano i tiazidici i farmaci di prima scelta nell'ipertensione non complicata; quelle europee suggeriscono che gli antipertensivi sono, grosso modo, tutti simili; quelle inglesi hanno introdotto la singolare regola AB/CD (aceinibitori, sartani o betabloccanti nei giovani, diuretici e calcioantagonisti negli anziani).
In una pillola recente Battaggia e Vaona hanno evidenziato come in gran parte degli studi sull'ipertensione le conclusioni derivano da analisi su end-point secondari e su sottogruppi: se si dovesse giudicare sulla base dell'end-point primario si dovrebbe concludere per una non dimostrazione di differenze importanti tra i vari trattamenti. Lo stesso studio ALLHAT, che ha costituito la base per le ultime linee guida americane, non ha dimostrato differenze nell'end-point primario tra clortalidone, lisinopril e amlodipina.
Quale filo d'arianna dovrebbero usare i medici per uscire da questo labirinto di dati?
E' evidente che discutere astrattamente di quale deve essere il farmaco di prima scelta è spesso un puro esercizio accademico perchè molti pazienti necessitano di un'associazione di due, tre, quattro farmaci per riuscire ad ottenere valori pressori accettabili. Vi è però una quota di pazienti che non hanno un'ipertensione complicata e non hanno patologie associate che possono far preferire alcuni farmaci rispetto ad altri e in cui la monoterapia è sufficiente.
Qual è allora il criterio di scelta? Se è vero che i farmaci antipertensivi sono, grosso modo, equivalenti, si dovrebbe pescare alla cieca? Ovviamente no, si dovranno privilegiare allora criteri come la tollerabilità individuale , l'esistenza di controindicazioni specifiche, l'efficacia nel singolo paziente nel raggiungere valori accettabili di pressione e, ultimo ma non meno importante, il costo della terapia.

Bilbiografia
1. Lancet 2000; 356:1949
2. Lancet 2000; 356:1955
3. JAMA 2002; 288:2981

Commento di Luca Puccetti

Da notare, che pur in assenza di dati sufficienti per poter avere una comparazione robusta, tuttavia esiste una tendenza a sfavore dell'atenololo il cui uso, sembra essere correlato con un maggior rischio di ictus rispetto ad altri betabloccanti, la cui eterogeneità è tale da determinare un amplissimo intervallo di confidenza che rende inutile qualsiasi paragone intragruppo. Anche per l'associazione betabloccanti più diuretici i dati suggeriscono una tendenza sfavorevole per il rischio di ictus (RR 1,09 95% IC 0,98-1,21) che sfiora la significatività. Quando il paragone viene fatto con il placebo o nessun trattamento i betabloccanti riducono l'ictus del 19%. Rispetto ad altri farmaci (1) questa diminuzione è pari a circa la metà, ovviamente tale valutazione deve tener presente che si tratta di popolazioni di pazienti diversi. Tuttavia vi è da notare che gli studi con atenololo considerati prevedevano la somministrazione una sola volta al giorno del farmaco e non due. Inoltre i dati sui nuovi betabloccanti quali carvedilolo e nebivololo non sono sufficienti ad esprimere un giudizio e dunque per adesso le conclusioni di questo studio, sono valide solo se consideriamo i betabloccanti come classe, ma dobbiamo pur sempre considerare che esiste una tendenza verso una peggiore performance dell'atenololo.

Bibliografia
1) Lancet 1990; 335:827-838

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