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Altro che lo pseudoscoop sui generici, occorre allungare i brevetti!
Inserito il 22 ottobre 2005 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Secondo un' inchiesta di Altroconsumo i medici italiani, per la gran parte, non hanno prescritto generici per il mal di denti.

Secondo Altroconsumo, in Italia c’è ancora scarsa propensione dei medici di base a prescrivere farmaci generici: su 75 medici di base, sentiti da Altroconsumo in 34 città italiane, ai quali è stato chiesto un farmaco appropriato e economico per combattere il dolore per un mal di denti, solo 21 medici avrebbero indicato un farmaco generico o equivalente. Altroconsumo calcola che la spesa potrebbe scendere del 45% se ogni volta che fosse possibile si prescrivesse il generico.
Anche i farmacisti sarebbero riluttanti a proporre la sostituzione con un farmaco equivalente meno costoso: solo la metà dei farmacisti (su 33 casi in cui l’ipotesi era realizzabile) coinvolti nell’inchiesta di Altroconsumo avrebbe spontaneamente, o su richiesta, sostituito il prodotto di marca indicato dal medico di base con un altro più economico.

Fonte: Altroconsumo, ottobre 2005

Commento di Luca Puccetti

Quelli di Altroconsumo forse sono male informati. Il medico ha tutta la libertà e buone ragioni per prescrivere o non un farmaco generico e la ritenuta uguaglianza della scelta è una forzatura sul piano scientifico e pratico. Ma i novelli Sherlock Holmes di Altroconsumo non sanno che il farmacista dovrebbe proporre al paziente il farmaco generico al più basso costo in caso di prescrizione di un prodotto di marca ? Questo il medico invece lo sa bene e dunque che prescriva o meno direttamente il generico nella stragrande maggioranza dei casi è o dovrebbe essere ininfluente essendo il paziente che decide di accettare l'eventuale sostituzione che deve essere proposta dal farmacista. In molte zone d'Italia, a meno che il medico non apponga la dicitura farmaco non sostituibile, cosa che avviene di rado per possibili sospetti di cointeressenze, ormai quello che il medico prescrive non si traduce quasi mai nel farmaco dato al paziente. Bene, in caso di problemi, ad esempio: effetti collaterali, minore o eccessiva azione farmacologica, chi risponderebbe del cambio del farmaco prescritto dal medico? Ma vogliamo esser più chiari. Nei media e purtroppo anche tra alcuni organi istituzionali ormai circola uno slogan che suona così: "Il farmaco generico è uguale a quello di marca, ma fa risparmiare". Dietro questo banale slogan si nasconde in realtà una superficialità davvero insopportabile ed una cattiva informazione. Il farmaco generico non è uguale al farmaco registrato e coperto da brevetto, è simile. Che significa simile ? Che come in tutte le cose della vita esiste una tolleranza. Ebbene per molti farmaci generici si può evitare di fare delle prove farmacologiche nell'uomo e si può usare una documentazione di equivalenza in vitro o non produrla affatto (non e' necessaria la presentazione di studi di bioequivalenza qualora la domanda di autorizzazione all'immissione in commercio sia presentata dal titolare della specialita' medicinale di cui è scaduto il brevetto o da un suo licenziatario art. 3 legge 425/96).
Gli studi di bioequivalenza non utilizzano parametri clinici di efficacia, ma si limitano a confrontare la biodisponibilità sistemica di due prodotti. I test di bioequivalenza sono basati sul confronto statistico di parametri farmacocinetici che caratterizzano la biodisponibilità dei due prodotti: generalmente vengono usati i parametri AUC, Cmax e tmax, ma quando ciò non è possibile si può ricorrere a parametri relativi all'escrezione urinaria o a parametri farmacodinamici direttamente correlabili con l'esposizione al farmaco. Una formulazione da testare ed una formulazione standard di riferimento sono definite bioequivalenti se si può determinare, con un buon livello di confidenza, che la differenza tra le loro biodisponibilità rientri in un intervallo predefinito come "intervallo accettabile" di bioequivalenza, convenzionalmente ritenuto compatibile con l'equivalenza terapeutica.
In pratica, i test di bioequivalenza consistono nel dimostrare che le differenze di biodisponibilità, che inevitabilmente esistono tra due prodotti essenzialmente simili, non superino un certo intervallo di variazione.
Con un sostanziale accordo internazionale, si è individuato l'intervallo accettabile di bioequivalenza adeguato a confrontare la biodisponibilità del prodotto test con quella del prodotto standard. Tale intervallo è fissato nel range 0,80-1,25, quando si considera la media dei rapporti individuali tra la AUC della formulazione assoggettata a test e quella della formulazione di riferimento; oppure è fissato entro il range ± 0,20 quando si utilizza la differenza tra parametri normalizzata per il parametro della formulazione standard; il livello di confidenza è generalmente fissato al 90%. Il valore ± 20% è stato scelto perché i fenomeni biologici sono variabili, infatti due unità posologiche dello stesso farmaco, somministrate a due differenti soggetti o in diversi momenti, danno curve di biodisponibilità differenti entro un range del ± 20%. L'intervallo di bioequivalenza è uno standard stabilito convenzionalmente avendo presente soprattutto la variabilità del comportamento in vivo della formulazione piuttosto che la variabilità della risposta terapeutica nella popolazione dei pazienti. Un intervallo di bioequivalenza così ampio e, soprattutto, non differenziato per categoria terapeutica e per classe farmacologica, tende a trascurare le altre variabili farmacologiche e cliniche che possono incidere significativamente sull'equivalenza terapeutica di due prodotti e potrebbe essere talvolta inadeguato a garantire con sufficiente affidabilità che due prodotti giudicati bioequivalenti siano anche terapeuticamente equivalenti quando usati in una popolazione reale di pazienti.
Nonostante queste difficoltà, gli studi di bioequivalenza sono stati ritenuti sufficientemente adeguati per stimare in modo surrogato l’equivalenza terapeutica tra due formulazioni, essenzialmente simili, contenenti lo stesso principio attivo.
L'accettabilità di questa variazione è stata stabilita in base al concetto che la variabilità individuale della risposta terapeutica è generalmente maggiore del range di variabilità fissato per il test di bioequivalenza. Tuttavia, almeno per alcuni farmaci aventi un indice terapeutico modesto, l'intervallo convenzionale di bioequivalenza potrebbe essere troppo ampio e quindi inadeguato a garantire con sufficiente affidabilità che due prodotti bioequivalenti siano anche terapeuticamente equivalenti.
Alcuni problemi sono stati sottostimati o del tutto trascurati. I test di bioequivalenza attuali consentono di stimare una bioequivalenza media di popolazione, e non una bioequivalenza individuale. La stima della bioequivalenza media non valuta l'equivalenza della risposta alle due formuazioni (generico e brand) nei singoli soggetti. Due formulazioni possono essere considerate bioequivalenti per una popolazione se, oltre al valore medio dei parametri di biodisponibilità, anche le loro distribuzioni attorno alle medie sono sufficientemente simili. Le AUC o le Cmax di due formulazioni possono avere un valore medio sufficientemente simile, ma una varianza significativamente differente.
In tal caso le due formulazioni non sono equivalenti per la popolazione perché le distribuzioni delle loro biodisponibilità sono significativamente differenti. Dimostrare la bioequivalenza di popolazione assume una significativa importanza per assicurare il medico che può attendersi un risultato terapeutico mediamente equivalente nella popolazione dei suoi pazienti, se inizia un nuovo trattamento con un farmaco generico piuttosto che con il prodotto brand.
La bioequivalenza di popolazione, tuttavia, non fornisce alcuna informazione circa la probabilità che la risposta del singolo paziente a due formulazioni sia equivalente. La biodisponibilità individuale si configura, dunque, come il criterio fondamentale per poter applicare la norma della sostituibilità tra formulazioni nel corso di un trattamento in atto, senza pregiudicare il profilo terapeutico e di sicurezza ottenuti con la prima formulazione.
Un secondo problema consiste nel fatto che i test di bioequivalenza sono fatti tra il singolo prodotto generico ed il prodotto brand. Questa situazione non garantisce che due o più generici dello stesso brand siano tra loro bioequivalenti. Per esempio, supponendo che un generico abbia una biodisponibilità (AUC)+15% ed un secondo generico una biodisponibilità –15%; entrambi sono bioequivalenti rispetto allo standard che imitano, ma non sono tra loro bioequivalenti.
Negli Stati Uniti esiste un Red Book periodicamente aggiornato, che riporta tutte le bioequivalenze studiate, indicando per ogni generico quali altri prodotti possa sostituire.
In base a questa considerazione il medico e il paziente che utilizzino un farmaco "bioequivalente" possono aspettarsi un risultato terapeutico "mediamente equivalente" nella popolazione complessiva degli utilizzatori, ma non è possibile fornire informazioni circa la probabilità che la risposta del singolo paziente alle due formulazioni diverse (farmaco di riferimento e generico bioequivalente) sia la stessa.
Il problema è particolarmente rilevante per i farmaci destinati ad uso continuativo e caratterizzati da un basso indice terapeutico.
La diversità fra i generici è legata anche alla qualità merceologica: i generici devono corrispondere a requisiti di legge per quanto riguarda le specifiche delle materie prime ed i processi di produzione (GMP). Tuttavia, la spinta eccessiva alla riduzione dei prezzi, può comportare un utilizzo di materie prime meno pregiate e meno purificate (sebbene questa possibilità sia ridotta dalle tolleranze limite ammesse) e l'utilizzo di tecnologie meno affidabili e meno sofisticate, particolarmente per quanto riguarda il controllo di qualità. Ma qui interviene una semplice considerazione: una grande ditta non può permettersi di infangare l'immagine del suo marchio, tanto faticosamente costruita, con una partita di farmaco non correttamente prodotta e dunque i controlli sono costanti e severissimi, proprio perchè si ha tanto da perdere in rapporto al costo della partita di farmaco da buttare. Inoltre c'è da considerare il problema degli eccipienti. La normativa vigente, basata sul DLgs 323 del 20/06/96 stabilisce che i generici debbano avere "la stessa composizione quali-quantitativa in principi attivi, la stessa forma farmaceutica e le stesse indicazioni terapeutiche.". La normativa non prevede la composizione degli eccipienti. Il problema non è irrilevante, soprattutto per quanto riguarda forme farmaceutiche quali i granulati, le soluzioni orali, le compresse, le capsule, le preparazioni dermatologiche. E non si tratta solo di problematiche legate al rilascio del principio attivo, ma anche di problemi di allergia o di generica intolleranza ai diversi tipi di sostanza.
L'aumentata diffusione di patologie che impongono restrizioni alimentari o di evitare determinate sostanze, ha fatto sì che si presti sempre più attenzione a questo problema.
In base alla vigente normativa attuale è certamente possibile che due farmaci, pur essendo tra loro bioequivalenti dal punto di vista del principio attivo, possano presentare invece differenze e problemi notevoli per quanto riguarda la composizione dei loro eccipienti.
E' dunque comprensibile la diffidenza che molti medici hanno verso i farmaci generici e verso la possibilità di sostituzione indifferenziata dei farmaci stessi tra di loro.
Passiamo ora al problema della convenienza. Si dice: i generici, facendo risparmiare, creano risorse per poter coprire i costi della concedibilità dei farmaci innovativi. Qui occorre una riflessione a 360 gradi. L'industria farmaceutica è composta da azionisti che devono fare profitti ed in questo non c'è nulla di male. Le medicine attuali sono già ottime, per molte di esse abbiamo prove non su indici surrogati, ma su end points primari. Questi studi, che sono costati molto, spesso hanno permesso di cambiare radicalmente il modo di curare le malattie, pensiamo ai beta bloccanti nello scompenso, ad esempio. Molti degli attuali farmaci, quando sono giunti alla scadenza del brevetto non vengono ulteriormente sviluppati in quanto gli eventuali benefici non sarebbero a vantaggio della ditta produttrice, ma di tutti quelli che vogliono produrli. Allora si investe in farmaci nuovi che di nuovo hanno poco e che debbono ricevere tutta la validazione che invece il farmaco vecchio ha già ottenuto. Oppure si spinge per la registrazione di nuovi farmaci con poche prove di sicurezza nell'uso allargato (vedi recenti problemi cerivastatina e alcuni coxib). Il farmaco mee-too è in effetti una dispersione di risorse nel senso che l'unico vantaggio è quello di offrire un'alternativa terapeuica ai non moltissimi soggetti che non rispondono o sono intolleranti ad un dato farmaco, ma non ad uno assai simile della stessa classe. In Italia ci si è per anni stracciati le vesti per il certificato complementare, ossia per il prolungamento dell'effetto dei brevetti, concesso per compensare le lungaggini del processo di approvazione. Ebbene la proposta, davvero controcorrente, è di allungare i tempi di sfruttamento dei brevetti. Le ditte serie continuerebbero a sviluppare i loro farmaci breakthrough fino alle estreme potenzialità, supportandoli con studi ampi e rigorosi. Per perequare si potrebbe trovare un costo, proporzianalmente più basso con l'andar del tempo, in assenza di nuovi ed importanti scoperte circa l'uso del farmaco.
Se tutti i guadagni, pur singolarmente ridotti, andasserro solo al detentore del brevetto la collettività non ci rimetterebbe, e ci sarebbe interesse da parte del detentore a continuare a sviluppare il farmaco. In un tale contesto si potrebbe davvero richiedere che per l'approvazione di un nuovo farmaco ci siano prove di efficacia e sicurezza, non solo in termini di eguaglianza con quelli già in commercio, ma di superiorità. Se per i farmaci adesso vogliamo molte più prove di sicurezza e di efficacia su end points primari, è chiaro che occorre molto più tempo per dare dimostrazione di ciò. Nella prospettiva di un lungo periodo brevettuale le ditte farmaceutiche immetterebbero in commercio farmaci con maggiori prove di efficacia e sicurezza senza cercare dei doppioni di quelli cui sta scadendo il brevetto. Le risorse verrebbero incanalate non nella commercializzazione di mee-too, ma nella ricerca di veri farmaci innovativi. Gli Enti regolatori potrebbero imporre prove più severe di quanto succede adesso proprio perchè una volta approvato il farmaco potrebbe essere venduto per lungo tempo e dunque eventuali ritardi nell'approvazione, motivati dalla richiesta di prove di efficacia sul campo su end point primari e di sicurezza nell'impiego su vasta scala, non sarebbero drammatici in termini di perdite economiche.

Fonte: www.galenotech.org

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