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Defibrillatori impiantabili in prevenzione primaria solo a pazienti selezionati
Inserito il 24 dicembre 2004 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Secondo uno studio l'uso routinario dei defibrillatori impiantabili nel post-infarto sarebbe sconsigliato in quanto riducono le morti aritmiche, ma non la mortalità totale. Ma altri studi forniscono risultati diversi.


E' noto che i pazienti con pregresso infarto miocardico sono ad aumentato rischio di morte aritmica, specialmente nei mesi successivi all'evento. I soggetti più a rischio sono quelli con aritmie ventricolari minacciose, ridotta frazione di eiezione o alterazioni della frequenza cardiaca . Nello studio DINAMIT, uno studio randomizzato in aperto, sono stati arruolati quasi 700 pazienti che avevano avuto un infarto miocardico da 6 a 40 giorni prima. Tutti i pazienti avevano una frazione di eiezione =< 35% e una ridotta variabilità della frequenza cardiaca o una frequenza media elevata registrata tramite elettrocardiografia dinamica. I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi, a uno dei quali venne impiantato un defibrillatore. Durante un followup medio di due anno e mezzo non ci furono differenze per quanto riguarda la mortalità totale tra i due gruppi, anche se nel gruppo con il defibrillatore le morti aritmiche erano ridotte in maniera statisticamente significativa.

Fonte: N Engl J Med 2004 Dec 9; 351:2481-2488


Commento di Renato Rossi

Da questo studio sembra quindi che l'impianto routinario di un defibrillatore nel periodo immediatamente successivo all'infarto miocardico non sia utile, neppure nei pazienti ad alto rischio di aritmie minacciose, a ridurre la mortalità totale in quanto, sebbene si riducano le morti aritmiche, si ha un aumento della mortalità da altre cause, così che il beneficio viene annullato. Da questo punto di vista si sono dimostrati più efficaci gli acidi omega 3 che nello studio Gissi-prevenzione (GISSI-Prevenzione Investigators. Lancet 1999 Aug 7; 354:447-455) hanno ridotto non solo le morti aritmiche ma anche la mortalità totale, per quanto il risultato diverso potrebbe essere dovuto alla diversa consistenza del campione arruolato (più di 11.000 pazienti nello studio italiano, meno di 700 in questo studio sui defibrillatori). I cosidetti ICD (implantable cardioverter defibrillator) originariamente erano stati pensati per i soggetti sopravvissuti ad un episodio di arresto cardiaco o di fibrillazione ventricolare. In questi pazienti gli studi mostrano un NNT da 9 a 24 (Connolly SJ et al. Meta-analysis of the Implantable Cardioverter Defibrillator Secondary Prevention Trials. AVID, CASH and CIDS Studies. Antiarrhythmics Vs Implantable Defibrillator Study. Cardiac Arrest Study Hamburg. Canadian Implantable Defibrillator Study. Eur Heart J 2000; 21(24):2071-8). Poi si è cominciato a metterli anche in prevenzione primaria in pazienti ritenuti a rischio di morte improvvisa, come per esempio quelli con cardiopatia ischemica e FE < 30% , con un NNT circa 9 (Studio MADIT II. Moss AJ et al. Prophylactic implantation of a defibrillator in patients with myocardial infarction and reduced ejection fraction. N Engl J Med 2002; 346:877-83). E' sempre difficile fare paragoni tra i pazienti di due studi diversi e quindi spiegare i risultati diversi ottenuti dagli studi DINAMIT e MADIT II. Sicuramente si può dire che mentre nel MADIT II la mortalità totale passava dal 19,8% del gruppo controllo al 14,2% del gruppo ICD, nel DINAMIT la mortalità totale era addirittura più elevata (anche se non statisticamente significativa) nel gruppo con ICD (18,6% vs 17%). Ha sicuramente ragione l'editorialista che commentando lo studio DINAMIT sostiene che per ora l'ICD non può essere impiegato routinariamente in tutti gli infartuati con grave riduzione della FE e che è necessario individualizzare la scelta sulla base del rischio di morte aritmica e di decesso da altre cause. Altri pazienti in cui viene proposto l'ICD sono quelli con condizioni eridatarie come la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro o la sindrome di Brugada, o ancora la cardiomiopatia ipertrofica e la sindrome del QT corto/lungo. Una meta-analisi sui trials di prevenzione primaria e secondaria (Lee DS et al. Effectiveness of implantable defibrillators for preventing arrhythmic events and death: a meta-analysis. J Am Coll Cardiol. 2003 May 7;41:1573-82) conclude che nella prevenzione secondaria il beneficio sulla mortalità totale è evidente, nella prevenzione primaria sembra che il beneficio dipenda dalla selezione dei pazienti a rischio. Una meta-analisi sulla utilità degli ICD nella cardiomiopatia non ischemica conclude nello stesso modo: i defibrillatori sono superiori alla terapia medica in pazienti selezionati (Desai AS et al. Implantable Defibrillators for the Prevention of Mortality in Patients With Nonischemic Cardiomyopathy . A Meta-analysis of Randomized Controlled Trials. JAMA 2004 Dec 15; 292:2874-2879 ). Le meta-analisi non tengono conto del recente Sudden Cardiac Death in Heart Failure Trial (SCD-HeFT), non ancora pubblicato ma i cui risultati sono stati presentati a marzo 2004 all' American College of Cardiology's Annual Scientific Session . Si tratta dello studio con casistica più numerosa avendo arruolato oltre 2500 pazienti con scompenso da qualsiasi causa e FE =< 35%. I pazienti arruolati sono stati randomizzati in tre gruppi: ICD, amiodarone o placebo, con follow-up medio di 2-6 anni. La mortalità totale, al 5° anno, era del 28,9% per l'ICD, del 34,1% per amiodarone e del 35,8% per il placebo (nessuna differenza tra amiodarone e placebo).

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